Quando si diventa femministe? Come si pratica il femminismo? Ognuna di noi può rispondere in diverse maniere, con diversi approcci, con diversi obiettivi. Nonostante le mie quotidiane complicità con lo stesso, il mio femminismo nasce dallo schifo per il patriarcato e le sue strutture. Infide e ipocrite in occidente, brutali in tanti altri posti del mondo. Ugualmente mortifere. Però questo è venuto dopo. L’ho studiato, l’ho attraversato nei testi di Carla Lonzi, di Donna Haraway, è divenuto tema delle mie sfigatissime ricerche, mi ha incantato quando si trattava delle donne curde.
Ma il mio femminismo è iniziato a scuola, quando ho fatto della mia vita la politica del margine senza neanche volerlo, trovandomi così, nei gruppi di sfigate e sfigati, di diversi, di esclusi. Eppure non è stato brutto, e se anche ho sofferto un po’ a scegliere e a trovarmici nel margine, quando ancora non si parlava di bullismo, sono grata di essere stata amica di ragazzini che vivevano in case occupate, stranieri o provenienti da famiglie piene di disagio, di ragazzine di seconda generazione pakistane, o strane perché giocavano a pallone, tradendo gli orientamenti sessuali che avrebbero avuto in età adulta. O ancora, ragazzine in corpi troppo grossi per la norma imposta.
Siamo state paria, siamo state ai margini, siamo state unite (chissà dove saranno ora…), e forse eravamo già un po’ femministe.
Manco io, ma i disagi miei sono tutti qua. Nell’essere stata, nell’essere ancora, nel grande gruppo delle “racchie, le vecchie, le camioniste, le frigide, le mal scopate, le inscopabili, le isteriche, le tarate, tutte le escluse dal gran mercato della bella donna”, per dirla con Virginie Despentes. Perché una scopata non fa primavera e una donna che non fa il soprammobile fa ancora paura, pare.