Dalla culla alla bara il rosa ci perseguita.
Ecco perciò, bello bello, messo a punto in Toscana il Codice Rosa che sarebbe il codice attribuito a chi accede al pronto soccorso dopo aver subito violenza.
Nel luogo di soccorso e cura, oltre al personale sanitario, saranno coinvolte anche le forze di polizia giudiziaria cioè, oltre ai sanitari ci staranno anche le forze dell’ordine.
E’ il prosieguo della logica che ha animato il decreto contro la violenza di genere; una logica puramente punitiva e securitaria, visceralmente contro l’autodeterminazione delle donne, messe ancora sotto custodia istituzionale e statale.
Che cosa accadrà e come probabilmente funzionerà lo spiega Maria Virgilio nel pezzo che riportiamo qui sotto (ripreso da qui).
Legge di Stabitilià: violenza e leggi in “rosa”
L’iniziativa parlamentare ha subito sollevato la disapprovazione dei centri antiviolenza e delle associazioni che operano nel campo. Così l’emendamento è stato ritoccato, togliendo il riferimento al Codice Rosa, ma lasciando la sostanza di un intervento delle forze dell’ordine in sede sanitaria.
L’emendamento è stato approvato ieri sera dalla Camera. Eppure era sul Piano d’azione governativo che bisognava agire. E’ in stallo, neppure diffuso sui siti ministeriali. E quindi il Parlamento avrebbe dovuto chiamare il Governo a render conto della incomprensibile mancata implementazione di uno strumento normativo che, per quanto criticabile, è l’unico a spostare il fuoco dell’intervento statuale dal livello penalistico/emergenziale/securitario a quello finalmente delle azioni di sistema.
L’emendamento inoltre è in contrasto con la scelta di fondo del Piano che aveva optato per non adottare a livello nazionale il c.d. Codice rosa, utilizzato solo in alcune esperienze territoriali. Qui invece il Codice rosa (ribattezzato Percorso tutela vittime di violenza, con palese confusione sul genere dei destinatari) sarebbe previsto come modello nazionale unico, ancora da precisare con linee guida ministeriali, ma intanto imposto.
E qui sta il primo e più grave difetto, la lesione dell’autonomia delle iniziative locali che in molte realtà si sono già attrezzate, costruendo un proprio lavoro di rete, formalizzato in protocolli tra istituzioni e associazioni e, soprattutto, disciplinato (di fatto in supplenza di interventi organici a livello nazionale) attraverso specifiche legislazioni regionali. Del resto l’emendamento stesso dà atto che ci sono “esperienze a livello locale già operative”. E allora perché calare dall’alto un “percorso di protezione” obbligato?
Né il Piano prevede mai che la “accettazione sanitaria”, nell’accesso ai Pronto Soccorso sia posta in carico alle forze dell’ordine, chiamate dall’emendamento a far parte di non meglio precisati Gruppi multidisciplinari. Anzi il Piano richiede inequivocabilmente “una esplicita indicazione” della donna per poter attivare il coinvolgimento delle forze dell’ordine, riconoscendo che in ogni caso il momento sanitario deve restare tale, con prevalenza certa del diritto alla salute della donna rispetto all’interesse punitivo.
Né può essere prescritta nei PS una non meglio precisata attività consistente nel “fornire assistenza giudiziaria (?!), sanitaria e sociale”, con la vittima di qualsiasi genere “presa in carico da parte dei servizi di assistenza, in collaborazione (bontà loro) con i centri antiviolenza. L’idea sarebbe quella di un momento di “rete”. Ma la metodologia di intervento integrato in rete, prevista dalla Convenzione di Istanbul e dal Piano, è ben altro. Ampia e diffusa, e con la finalità di raccordare tutte le realtà operative di fatto impegnate sul campo. Non solo nella sede sanitaria.
Così il principio ispiratore dell’emendamento riesce a superare persino le già inaccettabili forzature e irrigidimenti operati dalla legge n.119/2013 “in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”, che tra l’altro già promuove anche nei PS interventi d’ufficio delle forze dell’ordine (in veste di polizia giudiziaria) che prescindono non solo dalla istanza della donna che esterna violenza domestica, ma anche dal suo consenso o parere: anche contro la tua volontà.
Tale approccio statalista ha già finora privilegiato gli strumenti forti della penalità, ma qui andiamo ben oltre. La donna sa in anticipo che, se ricorrerà al Pronto soccorso, incontrerà obbligatoriamente la polizia giudiziaria, oltre che il personale sanitario.
Questi irrigidimenti legislativi sono nocivi e controproducenti. Le donne infatti cercheranno di evitare di rivolgersi al PS, se verrà così strutturato. Quale è il senso di caricare lo Stato dell’onere di “proteggere la donna” con una tutela anticipata e rafforzata che potrebbe essere esercitata “anche contro lei stessa”? Lo strumento penale è così utilizzato con tutta risolutezza, perché in fin dei conti sarebbe agito a favore di tutte le altre donne.
Invece la riluttanza delle donne a denunciare e querelare e, ancor più, la loro eventuale titubanza a proseguire nel conflitto giudiziario con sopravvenute rinunce e ritrattazioni deve essere affrontata e trattata con azioni di sostegno alle donne stesse e col rispetto dei loro “tempi”, e non forzandole con una sorta di decisionismo istituzionale: con loro, e non anche contro di loro. Così è invece inevitabile il rischio di veder strumentalizzata quella donna, in quel procedimento penale, per una pretesa crescita della forza delle altre donne.
In tal modo si è attribuita priorità alle logiche istituzionali repressive rispetto alla libertà femminile e ai suoi impervi tracciati. Si è ridotta l’autodeterminazione della donna a tutto vantaggio di una logica di irrigidimento, che non ammette e non tollera tentennamenti. Sta insomma prevalendo e l’emendamento lo accentua ulteriormente una linea interventista di compressione della volontà di chi (donna o uomo) ha subito violenza, che sopravanza la sua autonomia e determinazione.