Femminismi
di ritorni, narrazioni, amore e rodimenti di ovaie
Categories: One Woman Show

Ieri ero al concerto di St. Vincent. E pure un sacco di voialtri in quel di Roma. Dovrei o vorrei commentare il concerto, ma potete trovarne centinaia di questi racconti e video in giro per la rete: ed ecco la setlist, e quanti plettri ha usato, e chi erano i musicisti, e quante volte e andata su e giù dalla piattaforma, a che minuto ha steccato, quando si è buttata sul pubblico (dicendo stage diving perché è molto più cool), che c’era scritto sullo striscione che ha tirato con se dopo il diving sul palco, quanta gente c’era, la qualità tecnica della performance, l’affiatamento dei musicisti, le coreografie, il look, le chitarre che ha suonato, chiudere con un leggero accenno alla sua vita privata o semplicemente mettere su 5 o 6 foto carine con un trafiletto da quattro soldi.

Dovrei e mi piacerebbe, sul serio. Vi dirò questo, invece.

Lei è meravigliosa, magnetica e assolutamente impeccabile. Rispetto ad un po’ di esibizioni fa, mi pare abbia ancora più voglia di improvvisare sul palco, alcuni brani, ad esempio, sono arrangiati diversamente, specie negli assoli.

Mi piace vedere un’artista che ti mostra di essere in evoluzione, non solo sul colore dei capelli. Poi da femminista, da donna, guardare lei sul palco che svisa su quella chitarra con sicurezza, con trasporto e con la sensualità dell’intimità che c’è tra lei e le sue chitarre, non può che farmi eccitare. Percepisco una grande timidezza e distanza dal pubblico, ma un altrettanto enorme desiderio di colmare quella distanza. Annie ha surfato sul pubblico, alla fine, come l’altra volta. Dopo averlo studiato a lungo, come l’altra volta. L’altro volta io ero sotto, e lei si è adagiata su di noi, l’ala lesbica/femmina del pubblico d’avanti (le lesbiche, si sa, si ritrovano sempre tutte nello stesso posto, per una sorta di attrazione magnetica che prima o poi dovremmo studiare meglio).

L’audio come al solito, lascia a desiderare. Ok, a Roma i concerti non sono costosi come in altri posti della terra, ma l’audio fa cagare il 90% delle volte e si può fare meglio, se si vuole.

E poi noi. Dall’altra parte. Il pubblico grosso.

Dovremmo scrivere sui manifesti: attenzione prima di comprare il biglietto meditare sul fatto che trattasi di un ‘concerto per pubblico grosso’.

Definizione della definizione ‘concerto per pubblico grosso’

– quando si tratta di concerti:

a) all’aperto o in un posto molto grande, d’inverno, nel week end

b) di un’artista che, suo malgrado, è diventato minimamente not*, ovviamente non grazie alla musica

c) l’evento nel quale il concerto è ospitato, per ragioni a noi il più delle volte sconosciute, è diventato “l’evento”, il luogo dove devi essere stat*, con almeno una foto a testimoniarlo sul tuo status pubblico.

disclaimer: Questo post, che non è una recensione di un live, ma un racconto live, non è corredato da alcuna foto a testimoniare la mia reale presenza al concerto. Sì ho il biglietto, e molte persone erano insieme a me e possono confermalo.

Ma potrebbe anche essere una montatura. Il mio status non corrobora questa affermazione. Lo so.

La verità è che non ho avuto il coraggio di tirare fuori la mini camera che mi accompagna ai live, per acchiappare in qualche foto (ne scatto poche perché mi distrae troppo dalla performance) solo un paio di immagini, perché so che i ricordi poi sbiadiranno velocemente.

Perché mentre l’artista in questione cantava “Digital witness” e ci imponeva di andare ai nostri posti, ci chiedeva che senso ha dormire, se nessun può vedermi, e in breve come abbiamo venduto le nostre identità e personalità e che senso ha fare qualunque cosa in questo momento (guardami mentre mi butto giù da un ponte), beh davanti a lei c’erano centinaia di smartphone che sparavano mitragliate di status in cui qualcun* poteva dire che c’era, e quindi esisteva, perché era “un testimone digitale”.

Io, la macchina, non l’ho tirata fuori. E l’ho amata anche di più, nella solitudine dell’essere inascoltata.

Lei non è Kate Tempest, che nella stessa situazione è scesa tra il pubblico a ballare gridando “vi voglio qui ora, siamo qui ora tu e io (in faccia ad uno che le puntava il cellulare), non c’è bisogno di mettere niente tra me e te”, Annie/Erin/St. Vincent è un’artista diversa.

Eppure, per quanto la mia indole sia più simile a Kate, Annie ha detto le stesse cose, in una forma diversa e con un linguaggio differente, ma similmente toccante e commovente: ché la musica altro non è che percepire con tutta me stessa i sentimenti e le sensazioni che qualcun* altr* prova o ha provato, per non sentirmi più sola, finita e mortale nell’universo.

queste alcune storie di ieri:

– versione negativa ovvero lettera ad una ragazza, vestita e truccata bene, che avrei voluto simbolicamente picchiare (per vendicare anni di soprusi, lo confesso)

Tu, ragazza vestita e truccata bene, che ieri eri al concerto di St. Vincent (ovviamente per caso).

Tu che quando St. Vincent stava cominciando un nuovo pezzo (hai finalmente incontrato la tua amichetta che da tanto tempo non vedevi. Tu che hai quindi reagito come fossi al bar urlando, stramazzando e cominciando con la storia (versione lunga) degli ultimi tre anni della tua vita, urlando sempre più forte perché St. Vincent era a metà canzone, e ci stava dando dentro. Tu, ragazza vestita e truccata bene, che al mio (e non solo mio) voltarmi a guardarti con odio, tantissimo odio, ma senza fiatare, ti sei voltata dall’altra parte e hai fatto finta di non vedere (ne me ne gli altri). Tu, ragazza vestita e truccata bene, che nonostante avessi provato una comunicazione non verbale (3 volte) e una semi verbale “shhh” (due volte) secondo me molto chiara, hai continuato ad alzare la voce perché l’amica non sentiva gli straordinari aggiornamenti delle vite degli amici comuni. Tu, che quando mi sono girata e ti ho detto “ao, stiamo sentendo il concerto”, hai risposto “MAMMA MIA!” come se ti fossi appena svegliata, e senza alcun rispetto fossi stata proprio io a svegliarti. Tu, ragazza vestita e truccata bene e ora anche indignata per essere stata così aspramente rimproverata perché al mio urlo, le pecore intorno a me, almeno questo, hanno confermato di essere pure loro lì per il concerto, non per assistere alla tua conversazione con l’amica. Tu che andando via, sempre indignata mi hai urlato “cafona”. Tu che ti sei davvero sorpresa quando ti ho presa per la maglietta, tirata indietro e chiesto, a distanza ravvicinata: “cafona, a me? tu caghi il cazzo a 30 persone che stanno ascoltando un concerto, gridi come una ossessa e io sono cafona” e tu che ormai è evidente che non hai capito, ribadisci “che cazzo di modo di rivolgerti”. Tu ragazza vestita e truccata assai bene, che mi costringi a ricordarti che “non sono tua madre ne tuo padre, a loro toccava insegnarti a rispettare chi ti sta intorno, e che se non sparisci da qui in silenzio, subito, tocca pure che ti prendo a calci in culo”. Tu ragazza vestita e truccata assai bene, che alla fine hai capito che non stavi conversando nelle orecchie dell’ennesima ragazza vestita assai male e niente affatto truccata, ma di una che con rispetto per ben tre volte ha fatto leva sui due neuroni rimasti in quella inutile testolina, senza successo.

Tu, ragazza vestiva e truccata bene, spera pure di non incontrarmi mai più.

– versione positiva ovvero lettera ad un ragazzo che spero di incontrare ancora

E tu, ragazzo di vent’anni con l’accento del nord e molto queer. Tu che sul bus che ci portava a villa ada eri fuori di te dall’ansia di arrivare in ritardo. Tu che saltavi come un bambino che sta per arrivare alle giostre. che mi hai chiesto cento volte se eravamo vicini. Che quando siamo scesi mi hai chiesto la direzione giusta come stessi andando alla mecca. Tu, ragazzo sensibile e dolce, senza paura che ti giudicassi matto, hai cominciato a raccontarmi di quanto fosse stato bello vederla l’anno prima a Barcellona, di come ti avessero sorpreso il suo stile, la sua forza sul palco e la sua eleganza. Tu, che quasi ti commuovevi a pensare che stavi per rivederla. Tu che hai cominciato a correre, e a cui io ho urlato “devi girare qui!” ma non hai sentito e hai continuato a correre verso ponte salario. Tu, ragazzo dalle spalle piegate in avanti e il sorriso tenero, che pensavo non avessi più raggiunto villa ada, e ti fossi perso sulla salaria, caricato per sbaglio da qualche autista in cerca di piacere. Tu, con le mani sempre pronte a giocare con i capelli, che alla fine del concerto mentre chiacchieravo con delle amiche mi hai fatto toc toc sulla spalla, per raccontarmi di come fossi stato felice che il tuo ricordo di lei si fosse rinnovato e non sbiadito. Di come ancora più bella e magica ti era apparsa, e del fatto che eri così dispiaciuto di non essere riuscito a convincere nessuno dei tuoi amici a venire, perché non eri stato abbastanza bravo a fare proseliti per un’artista così meritevole. Tu, che con un sorrisone mi hai detto prima di andare “Giacomo”. Tu ragazzo di vent’anni e molto queer, sei le persone che vorrei incontrare ad un concerto. Sempre.

p.s. ringraziamenti a Elisa Luu, che mi ha preso il biglietto perché arriva sempre prima di me, e a pinklo per le birrette.

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