Femminismi
Le ragioni di Salman Talan
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lingua10Salman Talan era un ragazzo curdo di 24 anni, di nazionalità turca ma in Italia con alcuni fratelli da diverso tempo; poi aveva deciso di andare a combattere con il suo popolo contro l’avanzata dell’Isis.
Da un cecchino dell’Isis è stato ucciso in gennaio sul monte Shingal.
Quando è partito ha lasciato scritto questo: Nessuno mi ha obbligato. Vado a combattere contro l’Isis perché la mia famiglia possa scrivere nella sua lingua. Il suo nome di battaglia era Erdal Welat: «la mia terra».
In una riga e un nome sono riassunte tutte le ragioni del mondo.
Ricordiamo Salman e comprendiamo le sue ragioni riproponendo un post sulle lingue a rischio di estinzione, ma anche su quello che è la madre lingua; come ha detto Chomsky, e come è scritto lì: “uno specchio della mente”.
Salman lo sapeva bene, e probabilmente questa consapevolezza lo ha portato dalla provincia di Novara al fronte aperto contro chi vuole cancellare chi sei, chi sei stato e chi sarai.
Ieri era la giornata internazionale della lingua madre, una delle tante ricorrenze che i governi stabiliscono di comune accordo tanto per mimetizzarsi in apparenze di tutela mentre intorno tollerano devastazioni ambientali di ogni genere che sono preludio a scomparsa di popoli e lingue.
Il popolo curdo lo sa bene, e si è sempre opposto alla colonizzazione linguistica. Quello che andava a difendere Salman era la libertà conquistata per sé e per gli/le altr* nel cantone di Rojava; reale, combattuta, vissuta, non apparente e ipocrita da commemorazione inutile.

Qui di seguito l’articolo citato. Buona lettura – fonte http://www.survival.it/articoli/3168-lingue-indigene

“You say laughter and I say larfter “ [Tu dici “laughter” e io dico “larfter”] cantava Louis Armstrong. Tra queste due “risate” c’è solo una sottile differenza di pronuncia. Ma in tutto il mondo, dall’Amazzonia all’Artico, i popoli indigeni esprimono questo concetto in 4.000 modi davvero diversi.

Purtroppo, oggi più nessuno può dire “risata” in eyak, una lingua del Golfo dell’Alaska, perché i suoi ultimi fluenti interpreti sono morti nel 2008. Nessuno può più pronunciarla nemmeno nella lingua bo delle isole Andamane: l’ultima persona che sapeva parlarla, Boa Senior, è morta nel 2010. Quasi 55.000 anni di pensieri e idee – la storia collettiva di un intero popolo – sono morti con lei.

La maggior parte delle lingue tribali sta scomparendo più velocemente di quanto possano essere documentate. I linguisti dell’Istituto Living Tongues for Endangered Languages ritengono che in media scompaia una lingua ogni due settimane. Entro il 2100, più della metà delle oltre 7.000 lingue parlate sulla Terra – molte delle quali non ancora registrate – potrebbero scomparire. Il ritmo con cui stanno diminuendo supera persino quello delle specie in estinzione.

Le lingue tribali del mondo stanno scomparendo di pari passo con lo sfratto dei popoli indigeni dalle loro terre, con l’allontanamento forzato dei loro figli, costretti a subire sistemi educativi che li privano della saggezza tradizionale del loro popolo, con le guerre, l’urbanizzazione, il genocidio, le malattie, l’accaparramento violento di terra e la globalizzazione che continuano a minacciare i popoli tribali d’estinzione. E via via, con la morte delle tribù e l’estinzione delle loro lingue, di queste componenti uniche della società umana non restano nient’altro che ricordi.

Nel Brasile occidentale, oltre i campi di soia ingialliti dello stato di Rondônia, tra l’arsura di una persistente siccità, le colonne di fumo che si levano all’orizzonte e l’odore del legno che brucia sospeso nell’aria, sopravvivono ancora piccoli frammenti di foresta vergine e lussureggiante. Lì vivono gli ultimi cinque membri della tribù degli Akuntsu, un tempo florida e isolata.

Lo loro popolazione diminuì negli anni ’70 a causa della costruzione di un’autostrada che portò nello stato allevatori di bestiame, taglialegna, speculatori terrieri e coloni. I coloni volevano la terra, a qualunque prezzo. Gli allevatori spianarono con i bulldozer la foresta natale degli Akuntsu e assoldarono dei sicari per uccidere i suoi abitanti, cercando poi di nascondere le prove dei crimini. I sopravvissuti fuggirono nelle profondità della foresta, dove rimasero, traumatizzati, fino a quando fu stabilito un contatto a metà degli anni ’90. Da allora, i linguisti lavorano con la tribù nel tentativo di comprenderne la lingua. La speranza è quella che un giorno gli Akuntsu possano non solo raccontarci dettagliatamente la loro tragica storia ma anche condividere con il resto del mondo la conoscenza e le idee custodite nelle loro parole.

Il destino delle lingue tribali è lo stesso in tutto il mondo. Prima che gli Europei arrivassero in America e Australia, in ogni nazione si parlavano centinaia di lingue complesse. Oggi a parlare lo yurok della California e lo yawuru dell’Australia Occidentale non sono più di una manciata di persone. Tra le tribù dei Piedi Neri delle pianure nord-occidentali del Nord America, è raro trovare una persona sotto i vent’anni che sappia parlare la sua lingua madre, lo siksika; la maggior parte dei suoi interpreti sono gruppi di persone anziane, in graduale diminuzione. Quando le lingue diventano appannaggio esclusivo degli anziani, le conoscenze in esse contenute sono messe a grave rischio. Le capacità uniche e straordinarie sviluppate dai vari popoli per adattarsi al pianeta e rispondere creativamente alle sue sfide finiscono nella tomba insieme agli ultimi interpreti di quelle lingue. In un mondo in crisi ecologica come il nostro, queste informazioni non sono una perdita da poco.

In effetti, molte delle lingue tribali non sono più parlate con i bambini. Allo scopo di emarginare gli stili di vita tribali, le autorità dominanti hanno deliberatamente, e per lungo tempo, proibito alle tribù di comunicare nella loro lingua. Dagli anni ’50 agli anni ’80, le autorità sovietiche hanno cercato di soffocare le tradizioni dei popoli tribali della Siberia mandando i bambini indigeni in scuole che non insegnavano nelle loro lingue; e alcuni bambini venivano addirittura puniti se osavano parlarle.

In Canada, i bambini Inuit venivano strappati alle loro case, costretti in collegio e picchiati se comunicavano nella lingua madre. “Non mi aspettavo di essere preso a cinghiate a quell’epoca, ma lo fui ” racconta George Gosnell, un uomo Inuit. “Mi portarono nell’ufficio del preside e fui frustato per aver usato la nostra lingua”. Nelle comunità Innu del Canada, sebbene alcuni insegnamenti avvengano in innu-aimun, la lingua degli Innu, a scuola si usano per lo più l’inglese o il francese. “Quando usiamo vecchie parole innu, oggi i bambini non ci capiscono più” ha raccontato un Innu a Survival, “ma non possiamo tradurre perché noi non capiamo loro”.

La maggior parte delle lingue tribali, tuttavia, non si possono trovare nei libri. Né su internet. Né sotto una qualunque altra forma di documento perché sono state quasi tutte alimentate e trasmesse oralmente. Non per questo, tuttavia, sono meno valide o importanti. Le lingue orali documentano un corso parallelo della storia. “La vera storia dell’Australia non è mai stata letta” ha scritto un poeta Aborigeno, “Ma l’uomo di colore la conserva tutta nella sua mente” – un pensiero a cui ha fatto eco la donna boscimane Dicao Oma quando disse semplicemente: “Abbiamo il nostro modo di parlare”.

In modo simile, i Kallawaya boliviani – i guaritori itineranti che si ritiene siano stati i guaritori naturopati dei re Inca, e che ancora oggi viaggiano attraverso le valli andine e gli altopiani in cerca di erbe tradizionali – hanno il loro proprio “modo di parlare”; un linguaggio familiare segreto tramandato di padre in figlio e di nonno in nipote. Alcuni credono che la loro lingua, chiamata “machaj juyai” o “lingua popolare”, sia la lingua segreta dei re Inca, legata alle lingue della foresta amazzonica dove un tempo, i Kallawaya si erano spostati alla ricerca di sostanze per i loro trattamenti.

Nell’era della tecnologia, possiamo sperare in una nuova vita per il kallawaya e per altre lingue in estinzione. Un esempio incoraggiante è il quecha, la lingua indigena più parlata del Sud America. Il quecha aveva subito un lungo e lento declino ma è rinato dopo il lancio di un motore di ricerca in quecha su Google, il rilascio di una versione quecha di Windows e Office da parte di Microsoft e la traduzione del Don Chisciotte nella lingua indigena da parte dello studente Demetrio Túpac Yupanqui. Documentare e salvare le lingue antiche è di fatto possibile e anzi, oggi potrebbe essere ancor più facile grazie alle nuove forme e tecniche di comunicazione: gli SMS, i social network e le applicazioni iPhone.

In conclusione, la morte delle lingue tribali è non solo un problema d’identità per i suoi interpreti – una lingua è, come ha detto il linguista Noam Chomsky “uno specchio della mente” – ma una grave perdita per tutti noi, per la nostra comune umanità. Le lingue tribali sono lingue della terra, pervase da complesse informazioni geografiche, ecologiche e climatiche che hanno radici locali, ma un significato universale. Il fatto stesso che gli Inuit del Canada non abbiano una sola parola per esprimere il concetto di neve, per esempio, ma siano in grado di nominarne molti tipi differenti, dimostra quanto bene essi siano sintonizzati con il loro ambiente e, di conseguenza, con i suoi potenziali cambiamenti – un’abilità che, senza dubbio, molti popoli urbanizzati oggi hanno perso, essendo più distanti dal loro mondo naturale.

Ma le lingue sono anche ricche in intuizioni spirituali e sociali – di idee su cosa significhi essere umani; vivere, amare e morire. Così come stiamo aspettando di scoprire nelle piante della foresta pluviale le cure naturali per le malattie dell’umanità, allo stesso modo, nelle lingue tribali del mondo esistono già idee, percezioni e soluzioni sulle relazioni che legano gli uomini gli uni agli altri e al mondo naturale. Le lingue sono molto più che mere parole; rappresentano tutto ciò che conosciamo e chi sappiamo di essere. La loro perdita è incalcolabile. Per usare le parole del linguista Daniel Everett, autore e decano di Arti e Scienze all’Università di Bentley, “Quando perdiamo la conoscenza tribale, perdiamo parte della nostra ‘forza’ di Homo sapiens. Perdiamo un’inestimabile quantità di espressioni di umorismo, conoscenze, amore e l’intera gamma dell’esperienza umana. Un’antica tradizione, un mondo di soluzioni per la vita va perso per sempre. Non puoi digitarla su Google e riportarla indietro”.

“Dicono che il nostro linguaggio è semplice, che dovremmo rinunciare alla nostra lingua semplice per parlare la vostra” ha scritto l’inuit Simon Anaviapik. “Ma questa lingua, che è la mia e la vostra, rappresenta chi siamo e chi siamo stati. È il luogo in cui troviamo le nostre storie, le nostre vite, i nostri antenati: e dovrebbe anche essere il posto in cui trovare il nostro futuro”.

[Traduzione di Elena Pozzi.]

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