Anni addietro, come tante altre donne, quando eravamo concentrate a far sì che l’uccisione di tante donne per mano di mariti, compagni, amanti, conoscenti ecc. diventasse un fatto riconosciuto come “fenomeno” sociale, una delle cose che si disse era che: “l’assassino ha le chiavi di casa” perchè le mura domestiche erano il teatro privilegiato di quello che si incominciò a chiamare “femminicidio”.
Ora questo è acquisito; il termine “femminicidio” è comunemente usato, i media costruiscono servizi, inchieste, documentari sulle donne uccise “per amore”; la politica ha dato del suo meglio con norme e decreti… ma in tutto questo prodigarsi e sensibilizzarsi al problema, sembra che a trarne i benefici siano le pubblicità con la brandizzazione della donna pesta, la politica di tutela maternalista-moralista o repressivo-securitaria e intellettuali a rimorchio che hanno nuovi argomenti per scrivere qualcosa, incontrarsi a convegno ecc. ecc.
Il risultato di tanta “sensibilità” è il “fenomeno femminicidio” fagocitato e reso produttivo per il commercio, la politica, lo spettacolo, e di conseguenza la donna imbalsamata nel clichè della vittima di cui si ha bisogno per far funzionare il nuovo meccanismo mediatico-politico, paradossalmente nel disinteresse generale se le donne continuano ad essere uccise.
Ed in questi giorni, e quelli passati anche, di donne ne sono state uccise diverse, la maggior parte in casa …
a Pietra ligure calci e pugni, a Canicattini bagni (Siracusa) a colpi di piccone, e poi c’è Motta Visconti dove lui uccide lei non per impedire la sua libertà, ma per liberare sé stesso, e perciò uccide anche i figli che altrimenti sarebbero rimasti una zavorra.
C’è una differenza tra i “normali” femminicidi e questo che ha lasciato tutt* sconcertati, per il cinismo, la freddezza e la crudeltà dell’esecuzione e del post-esecuzione?
Il ti uccido pur di non lasciarti libera e ti uccido per liberarMi; i due poli entro i quali si esercitano le attese personali e sociali. In qualche modo qualcun* è sempre esecutore e guardiano della norma, quella che ha costruito per sé e che di solito coincide anche con quella che la sociocultura ci costruisce intorno nella forma della tanto amata “famiglia tradizionale”.
In molt* hanno osservato quanto qui ci sia stata mancanza di relazione, assolutizzazione dell’io, dell’uno che guarda solo a sé stesso in una condizione che Marco Revelli, per citare uno fra i/le tant*, definisce la malvagità del banale.
Non può essere negata la responsabilità individuale, ma questa si alimenta e prende forma nell’attesa collettiva; i ruoli sono lì, ci aspettano dalla nascita, aspettano che noi li assumiamo, li interpretiamo fino in fondo; a ognun* il suo, salvo l’inconveniente che un* coscientemente o meno si chiami fuori e allora qualcosa si rompe.
Oh, carriole di psicofarmaci e imbonitori sono lì pronti per riparare i danni e ripristinare una gabbia chimica dove quella sociale ha ceduto… ma insomma più o meno, così è, tra normalità e mostruosità, perchè siamo educat* ed autorizzat* a tutto meno che alla costruzione autonoma, cosciente (e perciò responsabile) ed autodeterminata del nostro destino.
Forse la malvagità del banale è la scelta obbligata, l’adesione passiva a quel modello che dobbiamo indossare anche se le nostre misure sono altre. Così si costruiscono gabbie, per sé e per gli altri, talvolta fino a quella definitiva che è una bara.
E forse l’addomesticazione istituzionale del femminicidio come fatto reale cui abbiamo accennato più sopra, serve a depistare continuamente e non andare mai al dunque, a quella costruzione sociopatriarcale che del femminicidio costituisce la storia, la geografia e la motivazione; quella dove si trovano Pietra ligure, Canicattini bagni e anche Motta Visconti.