Da troppo tempo manco dallo scrivere ciò che passa per questa mente così fragile, così complicata, così “dolcemente” frastornata.
Molte acque sono passate sotto i ponti, alcuni portoni sono stati aperti e parecchie notti sono state passate insieme.
Sembrano passati almeno tre anni.
Io lavoro, per due lire, e lavoro così tanto che non riesco a fare ciò che vorrei, che attraverso i portoni e sento il disagio di non sentirli miei, che il mio corpo come un tempo si ciba troppo per riempirsi di quel che gli manca e che non si sa cos’è. Il mio corpo che sento di aver violato di una violenza stupida. Che la legge di natura, come quella dello stato, non ammette ignoranza e fascistamente se ne frega.
Basta poco per immergersi nell’ipocondria, e ammalarsi prima del tempo. Poi c’è il disagio della propria eterosessualità monogama, che però non si rende mai noiosa perché i rischi si annidano in ogni dove, ma soprattutto nella propria stanchezza. Però ci sono anche occhi pieni di felicità, letti finalmente fuorimisura nel senso del troppo e non del troppo poco e potersi abbracciare anche stretti in magliette troppo piccole, non concordando su almeno una delle tre cose importanti della vita, ovvero le lenzuola.
Nemmeno le lenzuola, comunque, proteggono dalla frana di cose da fare, dalla frana di incomprensioni e di emozioni che a volte ti prende. E allora tutta la nostra materialità viene sommersa da stimoli, sbadigli e repressione, che ci descrive terroristi, quando siamo solo strabordanti d’amore. Amore che esce anche dalle prigioni, a cui purtroppo rimane impenetrabile il sole, la primavera e il gelato.
Infine c’è il continuo ripensamento dell’erotico e del relazionale, nel saggiare il buono che c’è nel mondo e nell’assaggiarlo senza però ricercarne la rappresentazione e la condivisione con troppe. Distanziarsi dalla rappresentazione di tutto, perché lavorando in quel che tutto rappresenta sento un sacro pudore di fronte all’esposizione indiscriminata dei corpi. Che le rappresentazioni ritraggano Renzi, Berlusconi e le varie Santanché. Io piuttosto preferisco l’altro lato della camera, quello più distante dall’obiettivo e dall’obiettività di tutti.
E per chiudere, farlo a riccio. O ad armadillo o porcellino di terra, a seconda dell’animale favorito.