Femminismi
#Femminicidio: uccidere le donne priva lo Stato di risorse? (chissenefrega!)
Categories: Femminismo a Sud

contabilita-calcolatrice_290357Da Abbatto i Muri:

Anno 2013

#42 femminicidi, ovvero si tratta di donne che sono state uccise per cultura del possesso, perché considerate una proprietà, per il ruolo di genere ad esse attribuito. La cifra non tiene conto del fatto che in un caso il marito è stato rilasciato perché gli indizi non sono sufficienti a dargli la carcerazione preventiva. Una delle vittime è stata uccisa dalla sua compagna.

#9 uomini uccisi per ragioni analoghe e sono vittime collaterali o vittime in prima persona, talvolta per mano femminile.

#5 casi di donne morte/uccise di cui, almeno da quel che riporta la stampa, non si sa nulla. Non si sa chi le abbia uccise né perché. Dunque classificarle come femminicidi non si può.

#5 donne uccise ed erano molto anziane e/o molto malate.

#16 donne (tra gli altri) uccise per motivi economici e psichiatrici (di chi le ha uccise).

Moltissimi uomini dopo aver commesso il delitto si sono suicidati.

Questo secondo la lettura e la numerazione di Bollettino di Guerra.

Repubblica scrive che i femminicidi sarebbero 66, anzi lo dichiarerebbe una organizzazione che non si capisce da dove abbia preso i dati posto che in Italia non esiste un Osservatorio Nazionale ma solo altre donne che fanno la rassegna stampa esattamente come quella che fa Bollettino di Guerra.

In un articolo precedente sempre Repubblica scrive che le vittime sarebbero 65 (ne aggiungeranno una per ogni diversa agenzia stampa che arriva?).

Non solo. Si calcola che i femminicidi avrebbero una frequenza di uno ogni due giorni e mezzo, si mischia tutto con i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che racconta di un tot di vittime di violenze, si parla di maltrattamenti per le donne durante il periodo della gravidanza, cose serie, insomma, di cui io so molte cose, bene che le abbiano raccontate, esistono, bisognerà pur trovare una soluzione.

Dopodiché interviene il viceministro del lavoro e delle politiche sociali Maria Cecilia Guerra, già vice della Fornero, in linea con le politiche economiche di Monti, che poi è quella che ha ricevuto delega alle pari opportunità dopo le dimissioni della Idem, la quale spiega:

I costi relativi alla violenza sulle donne sono enormi: in Italia, si aggirano intorno ai 2,4 miliardi di euro. E se consideriamo che le risorse predisposte per i centri antiviolenza sono sotto la decina di milioni, allora è piuttosto evidente che stiamo sottostimando il problema“. I costi “coinvolgono tutti i soggetti: tutte le donne, anche quelle che non subiscono violenza, ma anche tutti gli uomini“, aggiunge la Guerra ed è per questo che “devono essere rendicontati, così ci rendiamo conto di quanto sia importante anche l’investimento nella ricerca“.

In un altro articolo un po’ più approfondito lei afferma che:

“(…) la violenza produce costi economici, oltre a privarci in molti casi delle risorse che possono venire dalle donne.

quindi si parla di costi diretti e indiretti che derivano dalla violenza sulle donne.

E devo dire che da una che si occupa di economia non mi aspettavo molto di diverso. Viene contabilizzato quanto costa curarmi, intervenire per me, attivare servizi? Quali? Più probabile si riferisca al valore economico attribuito alle donne sulla base del ruolo di genere necessario al welfare. Ovvero, come si scriveva qui, potrebbe essere una lettura che sostanzia le politiche paternaliste e autoritarie contro la violenza sulle donne che:

esprim(ono) dunque chiaramente la linea governativa in materia, che è quella di mettere sotto tutela le donne in quanto apparati riproduttivi dello stato-nazione in crisi, affidando loro il welfare privatistico familiare. Attraverso la tutela del genere femminile in realtà si riafferma e si tutela l’ordine sociale tradizionale, basato sulla famiglia etero-patriarcale“.

Si intende che parte del costo determinato dalle violenze subite dalle donne viene calcolato anche perché le donne uccise mancano di occuparsi della “cura” (ecco in che consisterebbe il danno alle altre donne e agli uomini) e non si possono più riprodurre. Perché il valore di una donna è quantificato a partire dalla riproduzione, poi la cura, cresci i figli, poi servi a curare i genitori anziani, e se non lo fai tu è un gran casino. Senza contare il fatto che se tu muori, vuoi mettere?, non spendi, non consumi, se avevi qualche lavoretto precario non puoi neppure regalare contributi alla previdenza sociale ché tanto poi, comunque, non ti avrebbero restituito mai, e in tutto ciò, giacché tu non fai Pil (prodotto interno lordo), allora bisogna investire in qualcosa o qualcuno che ripari questo danno economico.

Non so perché ma mi viene in mente quello che commentavo dopo aver letto il post di The High Peak sullo sciopero delle donne. Ho sempre pensato di dover esigere che nessuno mi picchiasse mai perché sono una persona e non perché ho un valore produttivo e riproduttivo quantificabile al punto che sia necessario investire in qualcun@ che si assicuri, pena gravi perdite economiche prima che umane, che i conti tornino a posto come se le donne fossero solo un altro dei tagli economici da realizzare per sanare i bilanci dello Stato.

Dunque qual è il punto? Che per tenermi in vita bisogna mercanteggiare con chi subirebbe indirettamente una perdita economica dalla mia morte? Che io devo restare viva per realizzare profitto e per far bene al capitale? Così i soldi che si risparmiano con la mia vivitudine lo Stato può consegnarli alla Bce per pagare il debito procapite che resta pure sulla testa dei cadaveri? Non potrei, cortesemente, restare viva senza dover beneficiare nessuno in termini economici? E sempre ragionando di economia, giacché in parecchi casi di violenze contabilizzate (sigh!) si nota perfettamente come vi siano di mezzo situazioni di dipendenza economica, se la pensiamo come Stato Impresa che vuole prevenire costi economici, prima che umani e sociali, perché l’investimento non viene fatto allora in senso preventivo smettendo di segare via lo stato sociale  e smettendo di imporre alle donne il ruolo di ammortizzatore per eccellenza? Lo sa la ministra che le signore ottantenni, povere pensionate, sono state uccise dai figli quarantenni che sono tornati a casa perché disoccupati, poi depressi, completamente incasinati? Lo sa che ci sono donne che non sono riuscite a emanciparsi dalla situazione di dipendenza economica al punto da continuare a resistere prendendo botte da chi offriva loro vitto e alloggio? Lo sa che il destino di tante donne, di tante persone, cambierebbe se invece che essere educate alla conciliazione precarietà/famiglia cui la viceministra s’è dedicata tanto fossero indirizzate all’autonomia? Lo sa che quel che manca in generale è un reddito?

Il punto non è qual è la perdita economica che si realizza se io muoio. Il punto è che tu, Stato, guadagni sulla mia pelle, sul mio lavoro gratuito finché io sono in vita, giacché mi consideri una tua proprietà, un oggetto di Stato, e in questo senso contempli le perdite che derivano dalla mia eventuale morte, e dopo tutto ciò non mi dai né un reddito di esistenza né mi consenti di trovare un lavoro degno di questo nome.

Dovessi ora pure sentirmi in colpa del danno economico che creo allo Stato se subisco una violenza? E chi attenta alla mia vita dunque viene perseguito perché trancia il destino di un corpo di proprietà dello Stato? Mi pare proprio l’approccio più sbagliatissimo che ci sia. Già mi vedo alla fine lo Stato che chiede risarcimento ai miei parenti in vita se per assurdo qualcun@ ha la malsana idea di farmi fuori.

In ogni caso, ecco, se sommi tutte le donne uccise, pure quelle ammazzate per rapina, allora ti avvicini alla cifra di cui parlano i giornali. Se parli di femminicidio invece proprio no. Che rappresenti un costo economico/sociale la morte di tutte, incluse quelle che vittime di femminicidio non sono, se la lettura è di quanti soldi perdi ad averci un utero in meno che provvede ai suoi “doveri”, può certamente essere vero ma raccontare che quella cifra si riferisce ai femminicidi, sommando tutto e il contrario di tutto, senza ricavarne una seria analisi, a cosa porta? Solo ad evitare di dedicarsi in modo specifico a serie politiche preventive per finire poi, più banalmente, per attivare generiche ed inefficaci politiche securitarie. E’ dunque proprio necessario parlarne in senso emergenziale, da cui scaturiscono politiche e decisioni autoritarie, per riuscire a contemplare anche una gestione che faccia riferimento a reti territoriali esistenti? Giuro che non capisco. L’unica cosa che capisco è che in quanto sopravvissuta ad un tentato femminicidio per la prima volta da quando discuto di questioni di violenza sulle donne mi sento veramente e definitivamente “ferita a morte“.

Il mio valore non è quantificabile sulla base del ruolo di genere che mi è stato attribuito. Io, come tutte le altre, meritiamo di vivere perché siamo persone e non perché, in quanto uteri/donne, dalla nostra eventuale morte altrimenti deriverebbe una perdita economica a qualcun@.

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