Esco leggermente brilla da un centro sociale. La serata era bella ma domani devo lavorare, così m’avvio sola verso casa.
Accendo svogliatamente il motorino. Appena superato il primo incrocio mi passa davanti agli occhi una scena che non vorrei vedere.
Un uomo e una donna attraversano la strada. Lui la tira a se’ con violenza, lei sembra troppo ubriaca per riuscire a sfuggire alla sua presa. Li guardo. La guardo.
Vorrei proprio far finta di niente, riuscire a pensare che non sono affari miei, che domani ho da fare, che in fondo ne ho viste 10-100-1000 di scene uguali… ma non ce la faccio.
Sospirando accosto e fermo il motorino.
Magari non è come penso, magari è solo un modo che hanno questi due di giocare, magari ci riesco ancora ad andare a dormire ad un’ora quasi normale… Chiedo alla tipa se va tutto bene, se per caso ha bisogno d’aiuto.
Lei piagnucolando mi risponde di sí, che vorrebbe che il tipo la lasciasse stare, visto che l’ha giá picchiata abbastanza.
Per rafforzare il concetto mi fa vedere i lividi che ha sul braccio e sul collo.
Lui la interrompe e si rivolge a me direttamente: Ma tu che vuoi? Ma vattene dal tuo ragazzo, no?
Gli dico che è meglio se si calma e che deve smettere di trattenere la ragazza.
Lei, che già si era avvicinata per farmi vedere i segni adesso si è proprio messa dietro di me. Mi usa per prendere distanza da lui.
Ecco fatto. È andata.
Adesso ci sono dentro fino al collo e mi è chiaro che difficilmente riuscirò ad andare a letto presto.
Il tipo comincia a sbraitare. È un coatto orrendo di suo ma nella sua aggressività c’è un’evidente impronta chimica. Maledetta cocaina.
Mi viene sotto gridando che sono una lesbica, che quella è la sua ragazza e quello che succede tra loro sono cazzi suoi, che non mi devo impicciare e che se ho pensato di portargliela via ho capito male.
Soprassiedo all’osservazione relativa alle mie preferenze sessuali – ormai ci ho fatto l’abitudine: saranno i capelli troppo corti, le spalle troppo larghe, i pantaloni a vita bassa o i miei modi non femminili ma quella di “lesbica” è un’etichetta che ultimamente mi ritrovo spesso appiccicata addosso. E chi me la fornisce non lo fa mai per farmi un complimento.
Intanto si sono fermate altre due ragazze a guardare a debita distanza e quando la situazione comincia a farsi pesante (il tipo non m’ha ancora messo le mani addosso ma ci si avvicina paurosamente mentre io rimango sorprendentemente calma) le vedo allontanarsi parlando al telefono. Ecco, adesso arrivano pure le guardie. Ha ragione mia madre quando s’incazza e mi dice che quando non vengono da soli i guai me li vado a cercare…
La coppia di scoppiati adesso litiga più seriamente, parlano di un motorino che lei sta pagando a rate ma che lui considera di sua proprietà. La minaccia finale del violento è “Adesso te lo vado a sfracellare contro un muro, stronza”. Prende e se ne va.
Nel frattempo – completamente fuori tempo, ovvio – giungono a sirene spiegate le cosiddette forze dell’ordine.
Ci chiedono i documenti e di raccontare cos’è successo.
La ragazza è sotto shock, non riesce a fornire una spiegazione lineare dell’accaduto e in realtà l’unica cosa che sembra interessare il funzionario che l’ascolta con aria spazientita è la storia del motorino con cui s’è dileguato il tipo.
Passano 10 minuti, un quarto d’ora al massimo e contro ogni logica e mia aspettativa il coatto ricompare all’orizzonte.
Ditemi che non è vero.
Ditemi che non può sentirsi così sicuro di se’ da riportare qui impunemente le sue pretese da maschio padrone. Invece questo è il minimo.
Sostiene di aver chiamato anche lui le guardie e che vuole denunciarmi per sequestro di persona. Andiamo bene. Io non so più se ridere o piangere quando effettivamente arrivano altre 2 volanti (oltre alle 3 già presenti). Penso che questa sera a Roma non deve star succedendo proprio un cazzo mentre guardo perplessa le 5 volanti così inopportunamente vicine all’ingresso del centro sociale di cui sopra.
Mi sento quasi in colpa ed è la prima volta in questa notte sfigata che m’attraversa la testa, con estrema chiarezza, un pensiero “normale”: Ma perché non mi sono fatta i cazzi miei?
Telefono a un compagno del centro sociale per avvisare dello sgradevole movimento appena fuori dai cancelli. Gli racconto la storia per sommi capi e lui mi dice “Ma perché non hai chiamato prima?” Rispondo con un “Eh…” che vorrebbe essere molto piú articolato.
Intanto le guardie ascoltano anche la versione del tipo. Si sono allontanati per facilitare l’operazione peró lui, come ogni coatto che si rispetti, non smette di sbracciarsi verso di noi e vuole riavvicinarsi alla tipa e a un certo punto mi urla E te m’hai rotto er cazzo lesbica demmerda, perché non vai a leccá le fiche del centro sociale?
Sospiro e rimango interdetta.
Le guardie sghignazzano – alcune con pudore, altre molto apertamente.
L’unico che non ride è quello che ci piantona, ma comunque nessuno censura la sua frase.
Il poliziotto “buono” (quello che non mi ha deriso) ci spiega che stanno facendo di tutto per ritrovare il motorino. A loro importa solo questo cazzo di motorino.
Provo a spiegargli che la ragazza ha subito una violenza e che forse varrebbe la pena di interessarsi anche di questo.
La guardia mi risponde con aria di sufficienza “A signorí, l’amica sua scusi ma nun se capisce. Prima piagne, poi ride – e puzza come un’osteria”
Non riesco a trovare la forza di spiegargli che é tipica delle persone in stato di shock l’incapacità di gestire le emozioni e che quindi, forse, la sua insicurezza non dipende dalle bicchierate di vino che s’è presa. Penso che lo dovrebbe sapere. Penso che invece di 10 energumeni qua ci dovrebbe essere almeno una persona formata per riconoscere e mediare nei casi di violenza di genere.
Non riesco a crucciarmene troppo, visto che la mia attenzione viene presto attratta dal coatto, che ha fatto la sconsiderata mossa di superare le guardie che lo trattenevano per tentare di avvicinarsi a noi correndo.
Finisce come finisce sempre in questi casi.
In due lo acchiappano e lo tranquillizzano a suon di mazzate. Ne prende un bel po’, di quelle date bene, che senti le ossa che scrocchiano pure da lontano.
Io chiudo gli occhi e solo il rumore mi fa rabbrividire.
Non era così che doveva finire.
Infatti non é finita ancora.
Il poliziotto dichiara alla ragazza che non deve pensarci adesso, che ha ancora tempo per presentare la denuncia.
Lei tra i singhiozzi risponde “Va bene”.
Poi mi prende da una parte e mi dice “Signorí, ma lei lo sa tanto che questi due domani vanno al mare insieme, no? Non sa quante ne vediamo di storie così…”
Il coatto ha capito che con quegli energumeni non si deve allargare e ricomincia ad insultare e minacciare me.
“Sta lesbica demmerda…”
Il poliziotto ci dice che possiamo andare, che se sapranno qualcosa del motorino chiameranno loro.
Io ho finito le sigarette e adesso devo anche riaccompagnare la tipa a casa.
La lascio sul portone perché non ce la faccio piú e domani devo lavorare. Lei piange e mi dice che domani il tipo sicuramente tornerá a cercarla. Le dico che deve andare a un centro anti-violenza, che non ce ne stanno tanti ma che se cerca su Internet di sicuro ne troverá uno. Che mi dispiace un sacco ma anche la mia vita è complicata e che deve cercare di farsi forza e di farsi aiutare da qualcuno che le vuole bene.
Me ne vado rabbiosa e impotente e quando arrivo a casa mi sparo un personale con i resti del tabacco che trovo per casa.
Non riesco a smettere di pensare a quella ragazza ma voglio dimenticare il suo nome. Non la voglio riconoscere dopodomani leggendo la cronaca di Roma.
ho scritto questo post quasi un anno fa. è – come molte delle cose che scrivo – una storia vera piena di bugie.
volevo averlo pronto per il 25 novembre, ma piú leggevo e piú correggevo e riscrivevo e meno mi sembrava pronto. l’ho pensato per mesi ed ha continuato a buttare fuori sangue e pus come se fosse una ferita.
è un testo che pone molte questioni. lo sento irrisolto, ma ho deciso di pubblicarlo lo stesso.
perché è un grido di impotenza che vuole essere ascoltato.
perché io, da sola, non posso risolvere proprio niente.
perché ho voglia, insieme a chi sente lo stesso grado di coinvolgimento o di impotenza, di aprire uno spazio di discorso laboratoriale sulla violenza sessista.
[continua]
[… speriamo]