Un cane non è un gatto, un gatto non è un uomo, un uomo non è una donna, una donna non è un tessuto, un tessuto non è un organo, un organo non è un corpo.
Con questa tiritera abbiamo già delineato i pro e contro sui quali si scontrano i sostenitori delle alternative alla sperimentazione animale ed i sostenitori della necessità della stessa.
Lo schema è chiaro nel confronto che proponeva ieri il Fatto quotidiano fra Reiss e Garattini.
Due posizioni che isolate e guardate nella loro logica, sembrano corrette (o errate) entrambe.
E’ vero che un cane non è un gatto e che il modello animale, se pur per massima approssimazione, può essere fallace, ma è anche vero che un insieme di cellule di un tessuto non rappresentano lo stesso livello di organizzazione di un organo all’interno di un corpo. Anche la tossicogenomica è un’approssimazione riduzionista.
Mai come quando si parla di sperimentazione animale le cose diventano complicate, delicate ed apparentemente insolubili.
… ma ciò non toglie che si debba comunque cercare di trovare una soluzione.
La sensibilità individuale verso le altre specie innanzitutto, o empatia o come la vogliamo chiamare è già sufficiente a trovare una via di uscita, a fare la differenza e ad indurci a scegliere una posizione piuttosto che un’altra.
La percezione dell’alterità (umana o animale) come qualcosa di pertinente al “sè” (“io siamo loro”) è già una premessa che ci colloca fuori da tutte quelle crudeltà che la storia umana ha saputo e sa elargire a grandi quantità nei confronti delle specie altre ma anche nei confronti della propria [sessismi, colonialismi, razzismi… sono possibili perchè l’altr* è oggettificat* e quindi manipolabile…]
Ma la sensibilità ci porta fuori per la via più breve, svicolando da tutte le trappole che si incontrano lungo il cammino perchè i percorsi della realtà non sono mai semplici.
Il classico nodo, per esempio, dove si sedimentano le “contraddizioni” agitate dai pro e ribattute dagli anti è chiedersi: quanto dobbiamo optare per la salvaguardia intraspecifica a discapito di quella extraspecifica?
Qui di contraddizioni ce n’è veramente per tutt*, da quella più banale: “e se ti ammali di cancro?” a quelle più sottotraccia: es. pillole anticoncezionali, ru486, epidurale, tecniche di procreazione ecc. tutto ciò che come donne si può pretendere in nome della propria autonomia decisionale … non passano forse per i corpi delle cavie, topi o vacche che siano, prima di passare per il nostro?
Allora il problema possiamo anche riformularlo più o meno così: dove ci collochiamo come specie parlante cioè in grado di produrre lingua, pensieri, concetti che tras-formano la realtà, ovvero, come connotiamo la nostra interazione con le altre specie?
Per esempio, come donne, quante e quali tecnologie o bio-tecnologie siamo disposte ad accettare per affrancarci dal dato “naturale” di riproduttrici della specie quando non vogliamo esserlo o di riproduttrici quando “la natura” ce lo impedisce?
Ognuna risponderà per sè, per la propria sensibilità; ciò non toglie che ci debba essere un tentativo di riformulazione collettiva del discorso; il bisogno di de-naturalizzazione, come lo facciamo evolvere noi, che a differenza delle altre specie animali possiamo farlo perchè abbiamo una neocorteccia che ce lo permette?
E’ una riformulazione del discorso sulla sperimentazione animale che nè Reiss, che spaccia una parte per il tutto, ed ancor meno Garattini per ovvie ragioni, si pongono in quanto esponenti e praticanti di una scienza che per default attribuisce alla specie parlante la legittimità di rivestire di ragione le pratiche del dominio sulle altre specie.
E’ ovvio che il problema non si risolve, nè le contraddizioni svaniscono se all’inverso facciamo di ogni “specie” un fascio perchè dire che siamo tutt* uguali ed egualmente destinatari di diritti, non giova nè a noi nè alla comprensione della natura ovvero dell’ambiente nel quale siamo immers* e del quale siamo fatt*.
Nell’ultima frase dell’intervista Garattini tenta di legittimare la sperimentazione animale dicendo che questa serve anche a produrre farmaci che curano altri animali.
E’ un tentativo patetico di convincimento, ma è pur sempre realistico se guardiamo ai nostri “amici a quattro zampe” amati, nutriti e vaccinati e talvolta esageratamente destinatari dei nostri impulsi affettivi.
Ma per definire l’”esagerato” tra noi e loro, forse abbiamo anche qui bisogno di un metro di misura che alla fin fine è sempre quello: come ci collochiamo come specie e come guardiamo alle altre da noi?
Pur essendo sostanzialmente contro la sperimentazione animale, pur portandoci la nostra sensibilità a rigettarla, sappiamo che per giungere all’opzione zero, navighiamo in un labirinto di contraddizioni complesse, e per uscirne, dobbiamo portarci dietro un filo adeguato che non si spezzi cammin facendo.