Fu il “maternese“, la prima lingua della nostra specie.
Così sostiene Dean Falk, antropologa e specialista dell’evoluzione del cervello nel suo libro, che abbiamo letto con piacere: “Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio” (Bollati Boringhieri 2011).
Una nuova prospettiva negli studi sull’evoluzione del linguaggio che secondo gli approfondimenti di Falk non nasce con i richiami fra maschi impegnati nella caccia o nella competizione sessuale, nasce nella stretta relazione tra madre e figlio/a, dalla necessità di compensare il distacco dal corpo materno nel passaggio alla stazione eretta. Stare in piedi significò, oltre che modifica delle ossa del bacino, restringimento del canale del parto e selezione dei soli neonati di dimensioni più piccole, un maggior accudimento per l’impossibilità del piccolo di rimanere aggrappato al corpo materno come invece avviene per molte scimmie.
Fu la voce della madre, i suoi richiami di rassicurazione sulla sua vicinanza, i suoi vocalizzi, le sue cantilene diventate poi ninne nanne e musica quel caldo contatto con il corpo che non era più possibile mentre cercava da magiare o si occupava delle incombenze quotidiane.
Quella struttura di base che secondo Falk si ritrova in tutte le lingue, quel “maternese” il cui eco sentiamo risuonare ancora quando ci si rivolge ai neonati ed ai piccoli della specie, fu il proto-linguaggio dell’umanità, nato dalla necessità vitale di cura piuttosto che dalle impellenze di comunicazione fra uomini attorno al fuoco.
L’uso che poi gli uomini fanno del linguaggio come strumento di dominio sulle madri e sulle donne è un’altra storia.