Quello che segue é il testo del reading che ho presentato alla Ladyfest 2011.
Sentivo il bisogno di far parlare qualche testo per me sacro e i tre frammenti che ho selezionato e adattato alla lettura contengono alcuni spunti che hanno fatto del femminismo il mio discorso quotidiano e il mio riferimento d’analisi privilegiato.
Attraverso la mia bocca hanno parlato:
Itziar Ziga, scrittrice basca, portavoce di un femminismo irriverente e alcolico. Ho attinto a due suoi libri, Devenir Perra – divenire cagna, saggio sulla femminilitá estrema e antipatriarcale e Un zulo propio – un covo proprio, raccolta di articoli e saggi brevi). Sono entrambi editi da Melusina (1 e 2) e sono disponibili solo in spagnolo, al momento.
Audre Lorde si definiva negra, lesbica, femminista, guerriera, poeta, madre statunitense. La conobbi attraverso Helenlafloresta e di questo non la ringrazieró mai abbastanza.
Il saggio che ho tradotto e adattato si chiama Etá, razza, classe e sesso (é scaricabile ma pur sempre in spagnolo). In italiano la mia validissima Retroguard1a m’ha segnalato questo.
Virginie Despentes, scrittrice e regista francese che idolatro nonostante sia l’innamorata del mio sogno erotico Beto Preciado. Il brano che ho letto – che giá avevo adattato per la Ladyfest l’Aquila é tratto da King Kong Theorie, edito in italiano come King Kong Girl – che se non ce l’avete é ora che lo comprate, siate maschi, femmine o altro. Un assaggio ne hanno pubblicato anche le Ribellule.
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(Itziar Ziga da Devenir Perra e Un zulo propio)
Non sono mai passata per buona. Questa è stata una battaglia persa in anticipo che non mi è mai interessato combattere. Giá da piccola mi piaceva troppo rispondere e dire la mia – piú di quanto fosse consigliabile per una brava bambina. Mio padre me lo ripeteva mille volte: da quando mi vide appena nata seppe che gli avrei dato problemi. Eccome se gliene ho dati. Sebbene non trovai altro rimedio che sopportarla, non accettai mai la sua violenza contro di noi. Nacqui in guerra con l’ordine patriarcale che minacciava la mia vita e quella di tutte le donne: non potevo che essere femminista.
Quando incominciarono a crescermi le tette dalla massa di carne innocente e assaggiai il miele del peccato, nemmeno volli conformarmi con lo sfiorare un solo corpo. Mi è sempre piaciuto il suono della parola PUTTANA. Tanto che anche per i miei fidanzati non ero una perbene. Successivamente scoprii i corpi delle mie amiche. E fui anche piú che permale, fui peggiore.
Questa mia tendenza precoce a non conformarmi con quello che ci si aspettava da una brava ragazza fu tutta una rivelazione. Non sarei mai stata felice conformandomi coi limiti della femminilitá. Li dovevo abbattere.
“Ho accettato la purezza come la peggiore delle perversioni” queste parole di Marguerite Yourcenar mi perseguitano, si ripetono nella mia testa come una preghiera. La veritá obiettiva è sempre la versione del potere. E io scrivo dai margini, dalle fogne del sesso. Dall’attivismo e dalla rabbia di genere e classe, come donna permale e come povera.
Parlo d’amore. E anche di vendetta.
Non credo nel soggetto, non credo nella persona, non credo neanche alla mia stessa voce. Mi appello fin da ora alla discordanza di genere come meccanismo di sabotaggio sessuale e linguistico. Non mi è mai passato per la testa di generalizzare al maschile, peró nemmeno voglio incartarmi con noiosi i/e, chioccioline, stelline… la segregazione biologico-sociale di genere è per me ogni volta piú torbida. A questo punto non lo so cos’è una donna e nemmeno mi interessa. Mia nonna Susana, che adesso ha novantotto anni, la prima cosa che smarrí quando cominció a perdere le connessioni con la realtá del suo contesto, fu il concetto stabilito di genere. Ci parlava al maschile e mischiava tutto.
Grande nonnina, alla fine ti sei liberata del linguaggio simbolico che destinó te e tutte le donne a servire nella casta inferiore.
__ Considero il genere come una violenza, la violenza primordiale. (Etichettarci e) separarci come uomini o donne è imprescindibile per articolare tutte le altre violenze che ci “socializzeranno” durante la nostra esistenza. Senza la divisione patriarcale del lavoro non esisterebbe il capitalismo, e vorrei vedere a quale Stato tornerebbero i conti se la cura delle vite umane non fosse a carico gratuito delle donne. Senza il determinismo di genere non sarebbero possibili la eteronormativitá, l’omofobia… e noi potremmo dedicare il nostro tempo libero ad altre cose __
Seguiró quindi questa ribellione senile della mia nonnina Susana e non mi atterró alla logica semantico-sessuale che ha inculato lei, me, tutti e tutte. Come giá preannunciato, per sopravvivere non mi rimase altra scelta che essere femminista. Oltretutto scoprii che si stava proprio bene gironzolando per questi paraggi di femminilitá bandita.
E mentre il dirsi femminista continui avendo cotanta cattiva fama, insisto nel nominarmi come tale. Lo dico tanto per i tonti, allergici a tutto quello che gli suona a denuncia di sessismo, come per le femministe decenti, che si offendono quando una zoccola come me si confessa come tale.
Ricordo anche che ebbi un fidanzato stile talibano – i mentecatti non escono solo con le altre… Quando vide chiaramente che m’ero stancata del nostro asfissiante legame, accusó la mia amica Bego di essere una femminista radicale che stava giocando sporco contro di lui. Mi sfuggí una grossa risata: femminista radicale – e lo dice come se fosse un insulto! Io e lei ancora moriamo dalle risate ricordando quell’episodio e lo scemo che era.
A proposito, questo è un altro avvertimento: sono radicale. Radicale si dice di chi cerca la radice delle cose. Ovvero non essere radicale è essere come minimo superficiali – e in realtá stupide. Nonostante quello che dicano i telegiornali.
Una delle accuse abituali con le quali si usa attaccare le femministe è la cantilena che odiamo gli uomini. Nel mio caso, niente è piú lontano dalla realtá. Io adoro gli uomini. Sono i maschilisti che non sopporto. Ho piú amici uomini che la maggior parte degli imbecilli che m’hanno additato durante tutta la mia vita come anti-uomini. E il femminismo è stato precisamente il discorso vitale che m’ha permesso di curare le ferite aperte dalla brutalitá dei maschilisti e di aprire un’alleanza con gli uomini, trasformando un’incubo nel mio mondo abitabile.
(Audre Lorde dal saggio del 1980 Etá, razza, classe, sesso: le donne ridefiniscono la differenza)
Buona parte della storia europeo-occidentale ci condiziona affinché vediamo le differenze umane come opposizioni semplicistiche: dominante/dominato, buono/cattivo, superiore/inferiore. In una societá dove il buono si definisce in funzione dei benefici e non delle necessitá umane, sempre deve esistere qualche gruppo di persone le quali, mediante l’oppressione sistematica, siano spinte a sentirsi come se fossero di troppo e ad occupare il posto degli esseri inferiori disumani. Nella nostra societá questo gruppo è composto dalle persone negre e del terzo mondo, dalla classe lavoratrice, dalle anziane e dalle donne.
(Oltretutto) è sempre richiesto ai membri dei gruppi oppressi [..] che si sforzino di colmare l’abisso che separa la realtá della loro vita dalla coscienza dell’oppressore. Perché con l’obiettivo di sopravvivere, […] ci siamo sempre visti obbligati ad essere buoni osservatori e a familiarizzare con il linguaggio e le maniere dell’oppressore, a volte addirittura ad adottarli per guadagnare un’illusoria protezione. Ogni volta che parliamo di intavolare una supposta comunicazione, quelli che si beneficiano della nostra oppressione ci chiedono di confrontare le nostre conoscenze con le loro. Detto in un altro modo, insegnare all’oppressore quali sono i suoi errori è responsabilitá degli oppressi. […] Le persone negre e del terzo mondo sono responsabili di educare la gente bianca perché riconosca la loro umanitá. Dalle donne ci si aspetta che educhino gli uomini. Dalle lesbiche e i gay che educhino il mondo eterosessuale. Gli oppressori conservano la loro posizione ed eludono la responsabilitá delle loro azioni. E c’è un dissanguamento continuo di energie delle quali si potrebbe fare miglior uso se si dirigessero alla ridefinizione del nostro proprio essere e alla pianificazione realista dei mezzi per modificare il presente e costruire il futuro.
Il rifiuto istituzionalizzato della differenza è una necessitá di base per una economia di benefici che ha bisogno dell’esistenza di un’eccedenza di persone marginali. Questa economia in cui viviamo ci ha programmato tutte per reagire con paura e odio di fronte alle differenze che ci sono tra noi e per farcele affrontare in una di queste tre maniere: facendo come se non esistessero; se non è possibile, imitandole, quando pensiamo che sono dominanti; o distruggendole se le consideriamo subordinate. Peró non possediamo modelli di relazione ugualitari per affrontare le differenze. Di conseguenza, le differenze ricevono nomi falsi e si pongono al servizio della segregazione e della confusione.
Tra di noi esistono evidentemente differenze reali in quanto a razza, etá e sesso. Ma non sono queste differenze che ci separano. Quello che ci separa è, al contrario, la negazione a riconoscere le differenze e ad analizzare le distrosioni che derivano dal dare nomi falsi tanto ad esse come ai loro effetti sulla condotta e sulle aspettative umane.
Razzismo – sessismo – eterosessismo – elitismo – classismo – discriminazione per l’etá.
Dev’essere obiettivo permanente di ognuna di noi eliminare queste distorsioni e allo stesso tempo riconoscere, reclamare e definire le differenze che costituiscono la base sulla quale si impongono queste distorsioni. Perché ci siamo educate tutte nel seno di una societá nella quale queste distorsioni erano endemiche. Troppo spesso canalizziamo le energie necessarie a riconoscere e analizzare le differenze verso il compito di fingere che le differenze siano barriere infrangibili o che semplicemente non esistano. E il risultato è nell’isolamento volontario o in connessioni false, ingannevoli. In entrambi i casi non sviluppiamo i mezzi per utilizzare le differenze umane come trampolino che ci spinga verso il cambio creativo della nostra vita.
Nella parola sorellanza è implicita una supposta omogeneitá di esperienze che in realtá non esiste.
Cerchiamo di creare una societá avanzata, peró la discriminazione basata nell’etá è una distorsione delle relazioni che interferisce nella nostra visione. Al non curarci del passato, favoriamo la ripetizione degli errori. Il “gap generazionale” è un’arma sociale importante per qualsiasi societá repressora. Se le persone giovani di una comunitá considerano che i vecchi sono disprezzabili o superflui, non saranno mai capaci di unire le forze con loro per analizzare la memoria viva della comnunitá e nemmeno per chiedere “perché?”. Da questo deriva un’amnesia storica che ci mantiene occupate con la necessitá di inventare la ruota ogni volta che usciamo a comprare il pane.
Ci vediamo necessitate a ripetere e tornare ad imparare le lezioni che giá sapevano le nostre madri perché non trasmettiamo quello che apprendiamo o perché siamo incapaci di ascoltare.
Non curarsi delle differenze razziali che esistono tra le donne e delle implicazioni che hanno rappresenta la minaccia piú seria per la mobilitazione congiunta delle donne.
Se le donne bianche dimenticano i privilegi inerenti alla loro razza e definiscono la donna basandosi esclusivamente sulla loro esperienza, le donne di colore di convertono nelle “altre”, in straniere le cui esperienze e tradizioni sono troppo aliene per poterle comprendere.
Nella struttura di potere patriarcale, uno dei cui cardini é avere la pelle bianca, non si impiegano gli stessi inganni per neutralizzare le donne nere e le donne bianche.
Di questi tempi, [con le borse che cadono], l’economia in crisi e il conservatorismo in aumento, le donne bianche sono piú propense delle donne negre a cadere nella pericolosa trappola di credere che se sono sufficientemente buone, belle e dolci, se insegnano ai loro figli le buone maniere, se detestano chi devono detestare e si sposano con un buon partito, gli sará permesso convivere in relativa pace con il patriarcato, almeno fino a quando un uomo non abbia bisogno del loro posto di lavoro e non incrocino il violentatore del quartiere. É certo che, non vivendo nelle trincee, risulta difficile ricordare che la guerra contro la disumanizzazione non si ferma mai.
Le donne negre e le [loro] figlie sanno che la violenza e l’odio formano parte inestricabile delle trappole della vita e che non c’é riposo possibile. Non li affrontano soltanto sulle barricate o nei vicoli oscuri, né nei luoghi dove ci azzardiamo a verbalizzare la nostra resistenza. Per loro, la violenza é intrecciata al vivere quotidiano, la incontrano al supermercato, in classe, nell’ascensore, nell’ospedale, nel cortile di scuola, in fila alla posta.
Che aspetti concreti delle nostre vite dobbiamo analizzare e modificare per contribuire al cambio? Come ridefiniamo le differenze? Non sono le nostre differenze a separarci, ma la rinuncia a riconoscerle.
Uno dei meccanismi di controllo sociale consiste nell’indurre le donne a riconoscere legittimitá a una sola area delle differenze umane, quelle che esistono tra uomini e donne. E tutte abbiamo appreso ad affrontare queste differenze con la premura che caratterizza l’attitudine di qualsiasi subordinato oppresso. Tutte abbiamo dovuto apprendere a coesistere con gli uomini, a cominciare dai nostri padri. Abbiamo riconosciuto le differenze e ci siamo adattate ad esse, anche quando riconoscerle significava perpetuare il vecchio modello di relazione umana dominante/dominato, secondo il quale l’oppresso deve accettare la differenza del padrone se vuole sopravvivere.
Peró la nostra sopravvivenza futura dipende dalla nostra capacitá di relazionarci su un piano di uguaglianza. Se noi donne vogliamo raggiungere un cambiamento sociale che non si fermi agli aspetti meramente superficiali, dovremo sradicare i modelli di oppressione che abbiamo interiorizzato. Dobbiamo riconoscere le differenze che ci distinguono da altre donne che sono uguali a noi, né superiori né inferiori, e progettare i mezzi che ci permettano di utilizzare le differenze per arricchire la nostra visione e le nostre lotte comuni.
Il futuro della Terra puó dipendere dalla capacitá delle donne per identificare e sviluppare nuove definizioni del potere e nuovi modelli di relazione tra le differenze. Le vecchie definizioni non hanno beneficiato né noi né la terra che ci sostenta. I vecchi modelli, anche se abilmente ritoccati per imitare il progresso, continuano a condannarci ad incorrere in una ripetizione camuffata delle relazioni di sempre, del sentimento di colpa di sempre, dell’odio, della recriminazione, i lamenti e la sfiducia.
Abbiamo incorporato vecchi modelli che ci segnano aspettative e forme di risposta [legate alle] vecchie strutture di oppressione, e tutto questo dovremo modificarlo mentre modifichiamo le condizioni di vita che sono conseguenze di dette strutture. Ma gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone!
Il vero obiettivo del cambiamento rivoluzionario non é solo la situazione di oppressione della quale vogliamo liberarci, ma é anche questa parte dell’oppressore che teniamo dentro e che solo conosce le tattiche dell’oppressore e le relazioni dell’oppressore.
Ogni cambiamento comporta una crescita e la crescita puó essere dolorosa. Peró mostrando chi siamo attraverso la lotta e il lavoro condiviso con quelle che definiamo come differenti e alle quali, nonostante tutto, ci uniscono obiettivi comuni, riusciamo a ritagliare meglio la definizione di noi stesse. Questa puó essere la via della sopravvivenza per tutte le donne, negre o bianche, vecchie o giovani, lesbiche o eterosessuali.
(tratto da King Kong girl di Virginie Despentes)
Quello che le donne hanno passato non è solo la storia degli uomini, ma un’oppressione specifica. Una storia di una violenza inaudita. Da lí sorge una proposta semplice: andate affanculo, con la vostra forma condiscendente di guardarci, con le vostre simulazioni di forza garantite dal collettivo, la vostra protezione puntuale o la vostra manipolazione di vittime per le quali l’emancipazione femminile sarebbe qualcosa di difficile da sopportare. Quello che continua ad essere difficile è essere donna e tollerare queste queste stronzate. I vantaggi che traete dalla nostra oppressione in realtá sono trappole. Quando difendete i vostri diritti di maschi, siete come gli impiegati di un grand hotel che si credono i padroni…
Quando il mondo capitalista crolla e non puó soddisfare le necessitá di nessuno, quando non c’è lavoro, ne’ dignitá nel lavoro, in mezzo ad esigenze economiche crudeli e assurde, a vessazioni e umiliazioni burocratiche, ci si accusa di essere le uniche responsabili. Quello che vi rende infelici è la nostra liberazione. Non è colpa del sistema politico, ma dell’emancipazione delle donne.
Voler essere un uomo? Non mi interessa. Non voglio la barba e nemmeno il testosterone, io ho tutto il coraggio e l’aggressivitá di cui ho bisogno. Peró chiaramente voglio tutto quello che un uomo puó volere, come un uomo in un mondo di uomini voglio sfidare la legge. Frontalmente. Senza scorciatoie ne’ scuse. Voglio ottenere di piú di quello che mi hanno promesso. Non voglio che mi chiudano la bocca. Non voglio che mi dicano quello che devo fare. Non voglio che mi aprano la pelle per gonfiarmi le tette. Non voglio avere un corpo longilineo da adolescente quando m’avvicino ai quaranta. Non voglio fuggire dal conflitto per nascondere la mia forza ed evitare di perdere la mia femminilitá.
Liberano un ostaggio delle FARC. Lei dichiara alla radio “Finalmente ho potuto depilarmi, profumarmi, recuperare la mia femminilitá” o almeno questo è il frammmento dell’intervista che decidono selezionare. Lei non vuole camminare per la cittá, incontrare i suoi amici o leggere il giornale. Quello che vuole è depilarsi? Chiaro, è un suo diritto inalienabile. Peró non mi chiedano che mi sembri normale.
Dice Monique Witting: “siamo cadute di nuovo in trappola, nella familiare strada senza uscita del che meraviglioso è essere donna” Una affermazione che ripetono senza problemi alcuni uomini. Tacciono sul finale logico di questa affermazione “che meraviglioso è essere donna”: giovane, magra e piacente. Altrimenti non c’è niente di meraviglioso.
A molti uomini piace parlare delle donne, cosí non devono parlare di loro stessi. Come si spiega che negli ultimi 30 anni nessun uomo [eterosessuale] abbia prodotto un testo innovativo sulla mascolinitá? Forse vogliono che, per esempio, diciamo quello che pensiamo noi, da fuori, dei loro stupri di gruppo? Diremmo che gli piace vedersi scopare, guardarsi il cazzo l’uno con l’altro, e che gli venga duro insieme. Diremmo che quello che vogliono, in realtá, è scoparsi tra loro. Agli uomini piacciono gli uomini. Ci stanno spiegando tutto il tempo quanto gli piacciono le donne, peró tutte sappiamo che non sono che parole. Si amano tra uomini. Si scopano tra loro attraverso le donne, molti di loro pensano ai loro amici mentre lo infilano in una fica. Si guardano al cinema, si danno le parti migliori, si sentono potenti, si stupiscono di essere cosí forti, cosí belli e coraggiosi. Si appoggiano tra loro, si complimentano. Hanno ragione. Peró dopo averli ascoltati lamentarsi tanto che le donne non hanno abbastanza voglia di scopare, che non gli piace abbastanza il sesso come dovrebbe, che non capiscono niente, finiamo per chiederci: ma cosa aspettano a buttarselo in culo l’uno con gli altri? Avanti. Se questo puó restituirvi il sorriso, allora dev’essere giusto. Peró tra le cose che gli hanno inculcato bene c’è la paura di essere dei froci e l’obbligo che gli piacciano le donne. E cosí si reprimono. Protestano, peró obbediscono. E giá che ci sono, furiosi per il fatto di doversi sottomettere, prendono a schiaffi le fidanzate.
C’è stata una rivoluzione femminista. Si articolarono discorsi, superando il senso del decoro e affrontando l’ostilitá. E va avanti. Peró, al momento, sul fronte della mascolinitá, solo un silenzio terrorizzato di ragazzi fragili. Il sesso che si dice forte è precisamente quello che bisogna proteggere, quello che si deve confortare, curare, accudire. Quello che si deve proteggere contro la veritá. Che le donne siano stronze esattamente come loro e che alcuni uomini possano essere puttane e madri. Stiamo tutti e tutte nel mezzo della stessa confusione. Ci sono uomini che sono fatti per occuparsi del giardino, della cura della casa e di portare i bambini al parco e donne con un corpo capace di bucare la testa a un mammut, lottare corpo a corpo e tendere imboscate. A ciascuno il suo.
L’eterno femminino è una presa per il culo tremenda. Donna fatale, coniglietta, infermiera, lolita, puttana, madre pietosa o castrante: questi sono film, poste in scena di segni e travestimenti. Di cosa vogliamo tranquillizzarci con tutto questo? Non sappiamo esattamente che rischio correremmo se tutti questi archetipi costruiti crollassero: le puttane sono individui come tutti gli altri; le madri non sono intrinsecamente buone, ne’ coraggiose, ne’ affettuose, e neanche i padri. Questo dipende dal caso, dalla situazione, dal momento.
Liberiamoci del sessismo, questa trappola per fessi. Smettiamo di rispettare le regole e le mascherate obbligatorie. Qual’è l’autonomia della quale alcuni uomini hanno cosí tanta paura che preferiscono continuare in silenzio e non inventare niente di nuovo, nessun discorso critico e creativo sulla loro condizione?
A quando l’emancipazione maschile?
Questione di attitudine, di coraggio, di insubordinazione. Esiste una classe di forza, che non è maschile né femminile, che impressiona, che trascina, che da sicurezza. Una capacitá di dire di no, di tenere una visione propria delle cose, di non nascondersi. È lo stesso se l’eroe porta la gonna e ha due tette come meloni o se ha un pisello come un toro e fuma il sigaro.
Chiaro che è penoso essere donna. Paure, obblighi, imperativi di silenzio, chiamate a un ordine che è lo stesso da tanto tempo, un festival di limitazioni imbecilli e sterili. Sempre come straniere, facendo i lavori peggiori, somministrando la materia prima e assumendo un basso profilo. Peró, di fronte a quello che significa essere un uomo, questo è uno scherzo. Perché alla fine, non siamo noi quelle che hanno piú paura, né quelle piú disarmate. Il sesso della resistenza e del coraggio sempre è stato il nostro – non è che abbiamo avuto molta scelta, d’altronde.
Il vero coraggio è confrontarsi col nuovo, questionando certe stupidaggini delle quali abbiamo avuto abbastanza.
Il femminismo è una rivoluzione, non un’operazione di marketing, non un’ondata di promozione dello scambio di coppie e nemmeno una questione legata all’aumento di stipendio. Il femminismo è un’avventura collettiva, per le donne ma anche per gli uomini e pure per tutti gli altri. Una rivoluzione che giá è incominciata. Una visione del mondo, un’opzione.
Non si tratta di opporre i piccoli vantaggi delle donne ai piccoli diritti acquisiti degli uomini, ma di dinamitarlo tutto.
E detto questo, buona fortuna e buon viaggio a tutte e tutti.
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Mi accompagnava per la parte musicale Donasonica, bellissima scoperta, spero nuova complice – un po’ la conoscevo giá (noblogs é garanzia di qualitá)
(l’immagine é di Claudia Pajewski)
RINGRAZIAMENTI
Avevo una lista di ringraziamenti che manco avessi vinto un Oscar e alla fine ero cosí emozionata che non sono riuscita a dire un cazzo. Quindi li schiaffo qua.
Grazie al Pazzeschi, innanzitutto per avermi tirato dentro la prima Ladyfest, poi per essere stata l’ispiratrice originale e la piú grande supporter di questo progetto di reading e per avermi riportato dentro questa Ladyfest in zona Cesarini. Per essere amica e sorella anche se siamo differenti.
Grazie a Bea, per tutti i Daje e gli abbracci e le volte che m’ha fatto capire cose che da sola non riuscivo a capire. Per avermi passato Testo Yonki e Devenir Perra. Perché é il mio aiutante magico e c’é sempre quando ho bisogno di lei.
Grazie a tutte le ladies, pure per le volte che m’hanno fatto incazzare. Perché si impara sempre e a volte c’é bisogno di fermarsi per capire meglio. Perché l’intelligenza collettiva é faticosa, ma la potenza che mette in atto é irresistibile. Vi voglio bene, che la Dea vi benedica
Grazie alla Pornoterrorista, per il suo coraggio e per il suo esempio, e perché un laboratorio di performance con lei m’ha dato piú coraggio che un decennio di mediattivismo. Adesso non mi vergogno proprio di niente.
Grazie a Lilith Primavera, perché m’ha fatto capire la differenza tra prendersi sul serio e prendere le cose che si fanno sul serio. Per tutti i gong del passato, presente e futuro. Amen.
Grazie alla Dipi, per l’entusiasmo bambino e l’amoroso supporto morale e materiale.
Grazie a jemma temp, pure se non c’era.
Grazie a mia madre e a Carla, per insegnarmi che il femminismo non stava solo nei libri, ma che poteva essere un’opzione della vita materiale.
Grazie alla Patri, che mi guardava dalla Luna.
Grazie pure a tutte quelle che m’hanno detto grazie, con un sorriso estatico o tra i singhiozzi.
Come minimo, questo rimane: non siete, non siamo sole.