Andare a l’Aquila è sempre una botta forte. La prima volta che ci sono stata pensai che era una città meravigliosa, coi prati verdi e la basilica illuminata.
La seconda volta l’Aquila era distrutta e con la macchina e qualche amica ci destreggiavamo tra le scorte di cibo e altre cose utili da portare in giro.
La terza volta, più di un anno dopo il terremoto, era ancora tutto a terra. Taccio su tutto quello che si è fatto autoritariamente. Mi basta quello che non s’è fatto. Una manifestazione muta, di fronte a uno studentato parzialmente crollato.
La quarta volta, è ancora tutto lì. Si costruiscono centri commerciali, mentre è morta una città.
Questo è un report fotografico della mia quarta volta.
Questo è l’Asilo occupato, uno spazio liberato in una terra ferita.
Questo invece lo studentato, la cui palazzina crollata è ancora a terra, in cui ancora campeggiano le macchinette per le merendine dalle finestre, in cui le scritte chiedono rispetto.


E a pochi metri, un accappatoio rimasto appeso da due anni, mentre i muri sono crollati.
Lì accanto, alcune scritte riportano indicazioni autoritarie, promesse di lavori e di termine degli stessi. Ma è tutto uguale all’ultima volta che sono venuta. Tutto, tranne i militari, forse, loro li faranno girare, a presidiare la zona rossa. Non sia mai che qualcuno provi a rientrare a casa sua.
Per concludere con una foto del centro antiviolenza che sarà (ma quando?) e delle donne che r-esistono, mutano, vivono. In barba ai militari, ai calcinacci, all’autorità, ai laboratori di repressione. Grazie aquilane per averci creato questo momento, grazie asilo dell’ospitalità freddolosa, grazie a tutte, anche alle romane che suonavano!

E tante scuse per la retorica, non voglio mai, ma soprattutto non in questi casi.