Femminismi
Quando le nostre labbra parlano di amori da riot
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La voce, questo oggetto e soggetto che ci portiamo dentro e dovrebbe sviluppare i nostri pensieri e invece così spesso si incarta sulle palline da tennis che abbiamo ingoiato da piccole, quando abbiamo imparato cosa si dice e cosa non si dice…

L’udito, questo senso sempre aperto, sempre acceso sempre nostro, che si spegne piano con l’età e ci fa dimenticare i fruscii e l’ovattato che sentivamo dall’utero. Sussurrarsi piano che ci amiamo.

Io l’ho fatto su pornosotrx, un progetto di mi’ zia Slavina, per non scordare tutto l’amore che una piazza ti può dare. Chissà che ne avrebbe pensato il Bernini, di quella piazza!

Ricordi di resistenza, condivisi non casualmente un 25 aprile un po’ strano.

E ancora, condivido un testo che mi è piaciuto molto di Luce Irigaray e che ho preso da qui.

Quando le nostre labbra si parlano

“Quand nos lèvres se parlent” nel 1976 in Cahiers du Grif, no.12, p. 23-28, tradotto da Luisa Muraro e pubblicato nell’antologia di saggi di Luce Irigary “Questo sesso che non è un sesso” (Milano: Feltrinelli, 1978 e1990)

Se continuiamo a parlarci lo stesso linguaggio, finiremo per riprodurre la stessa storia. Ricominciare le stesse storie. Non lo senti? Ascolta: intorno a noi gli uomini e le donne, si direbbe che è uguale. Stesse discussioni, stessi litigi, stessi drammi. Stesse preferenze, e poi rotture. Stesse difficoltà, impossibilità di trovarsi. Sempre lo stesso…

Se noi continuiamo a “parlare il medesimo”, se ci parliamo come gli uomini si parlano da secoli, come ci hanno insegnato a parlare, non c’incontreremo. Ancora… Le parole passeranno attraverso i nostri corpi, sopra le nostre teste, per andare a perdersi, a perderci. Lontano, in alto. Assenti da noi: intessute di parole, tessuti parlanti. L’involucro è appropriato, ma non è nostro. Involtate, o violate, nei nomi propri. Non il tuo né il mio. Noi non ne abbiamo. Cambia, ogni volta che ci scambiano, a seconda che ci usano. Dicono che siamo vogliose d’essere cosi mutevoli, permutabili da loro.

Come toccarti se tu non ci sei? Se il tuo sangue è passato a loro, diventando senso? Loro possono parlarsi, anche di noi. Ma noi ? Esci dal loro linguaggio. Prova a riattraversare i nomi che ti hanno dato. Ti aspetto, mi aspetto. Ritorna. Non è difficile. Rimani qui e non ti astrai in scene già recitate, in frasi già dette e ridette, in gesti già conosciuti. In corpi già codificati. Cerchi di stare attenta a te stessa. A me. Senza lasciarti distrarre dalla norma, o dall’abitudine.

Per esempio: ti amo, normalmente o abitualmente si rivolge ad un enigma: un altro. Un altro corpo, un altro sesso. Io amo: non so bene chi, che cosa. Io amo si spande, si perde, affoga, brucia, finisce in un vuoto profondo. Bisognerà aspettare il ritorno dell “io amo”. A volte per molto tempo, a volte per sempre. Dov’è passata “io amo”? Dove sono divenuta? Io amo spia l’arrivo dell’altro. Mi ha mangiata? Respinta? Presa? Lasciata? Rinchiusa? Espulsa? Com’è lui adesso? E’ un po’ me? Quando mi dice: ti amo, mi rende? O è lui che si dà sotto questa forma? La sua? La mia? La stessa? Un’altra? Ma allora dove sono divenuta?

Quando dici ti amo – restando qui, vicina a te, a me – tu dici mi amo. Non c’è da aspettare che questo ti sia reso, e nemmeno io. Non ti devo niente, non mi devi niente. Questo ti amo non è un dono né un debito. Tu non mi “dai” niente toccandoti, toccandomi: ritoccandoti in me. Non ti dai. Che farei di te, di me, se fossi(mo) ripiegata/e sul dono? Tu ti/mi conservi così come ti/mi spandi. Tu ti/mi contieni così come ti/mi confidi. Queste alternative, opposizioni, scelte, mercati, non hanno corso, tra noi. A meno di ripetere il loro commercio, di restare nella loro economia. Dove noi non ha luogo.

Ti amo: corpo spartito. Senza tagli. Senza te né me staccati. Non c’è sangue versato o da versare, tra noi. Non c’è bisogno di piaghe per ricordarci che il sangue esiste. Scorre in noi, da noi. Il sangue ci è familiare. Il sangue: vicino. Sei tutta rossa. E così bianca. L’una e l’altra. Diventando rossa non perdi il tuo candore. Sei bianca per non esserti allontanata dal sangue. Da noi, bianche pur restando rosse, nascono tutti i colori: rosate, brune, bionde, verdi, celesti… Perché questo bianco non è sembianza. Sangue morto. Sangue nero. Nero della sembianza. Che assorbe tutto per tentare di riprendere vita. Invano… Il candore del rosso non prende niente. Rimanda come riceve. Luminoso, senza autarchia.

Luminose, noi. Senza una, né due. Non sono mai riuscita a contare. Fino a te. Saremmo due, secondo i loro calcoli. Due, veramente? Non è da ridere? Strano due. Però non una. Soprattutto non una. L’uno, che se lo tengano. Il privilegio, il dominio, il solipsismo dell’uno: anche del sole. E la strana suddivisione delle loro coppie, dove l’altro è immagine dell’uno. Immagine soltanto. Andare verso l’altro è come essere attratti dallo specchio. Specchio (appena) vivo. Superficie di ghiaccio. Muta. E’ più fedele. Lavoro sfibrante del doppiaggio, dell’imitazione, in cui s’esauriscono i movimenti della nostra vita. Destinate a riprodurre. Un medesimo nel quale siamo da secoli: gli altri.

Ma come dire altrimenti ti amo? Ti amo, mia indifferente? Così ci pieghiamo al loro linguaggio. Per distinguerci, ci hanno lasciato le lacune, i difetti. Il negativo. Dovremmo essere – già questo è troppo – delle indifferenti.

Indifferente, rimani calma. Se ti muovi disturbi il loro ordine. Fai cadere tutto. Rompi il giro delle loro abitudini, il circuito dei loro scambi, del loro sapere, del loro desiderio. Del loro mondo. Indifferente non devi muoverti né commuoverti se non sono loro a chiamarti. Se dicono “vieni” allora puoi farti avanti. Un po’. Sistemandoti secondo il bisogno che hanno o non hanno di vedersi davanti la loro immagine. Uno o due passi. Nient’altro. Niente esuberanze o turbolenze. Sennò rompi tutto. La liscia superficie. La loro terra, la loro madre. La tua vita? Devi averne la sembianza, fare finta: di riceverla da loro. Piccolo ricettacolo indifferente, sottomessa alle loro pressioni, unicamente.

Dunque, noi saremmo indifferenti. Non ti fa ridere? Almeno così, di primo acchito? Indifferenti, noi? (Se ti metti a ridere ogni momento e dovunque, non potremo mai parlarci. E saremo ancora inv(i)olate nelle loro parole. Allora, ricomponiamoci un po’ per provare a dire.) Non differenti, è vero. Insomma… Sarebbe troppo semplice. E quel “non” ci separa ancora per misurarci. Così disgiunte, nessun noi. Simili? Se si vuole. Un po’ astratto. Non capisco bene: simili. Tu capisci? Simili agli occhi di chi? In funzione di che cosa? Quale unità di misura? Quale terzo termine? Ti tocco, mi basta per sapere che sei il mio corpo.

Ti amo: le nostre due labbra non possono separarsi per lasciar passare una parola. Una sola parola che direbbe te o me. O: uguali. Chi ama, chi è amata. Esse dicono – chiuse e aperte, senza che l’una escluda mai l’altra – l’una e l’altra si amano. Insieme. Per produrre una parola esatta, dovrebbero tenersi scostate. Nettamente scostate l’una dall’altra. Distanti l’una dall’altra, e tra loro una parola.

Ma da dove verrebbe questa parola? Tutta corretta, ben fatta, piena di senso. Neanche una fessura. Tu. Io. C’è di che ridere… Senza fessura, non sarebbe più te né me. Senza labbra, non sarebbe noi. L’unità delle parole, la loro verità, le loro proprietà, non hanno labbra. Labbra dimenticate. Le parole sono mute, quando sono state dette una volta per tutte. Rifinite come si deve, perché non perdano il loro senso – il loro sangue. Come i figli dell’uomo. Non i nostri. E, d’altronde, che bisogno o desiderio abbiamo di figli? Qui ora: vicine. Gli uomini, le donne, fanno dei figli per dare corpo alla loro vicinanza, alla loro lontananza. Ma noi?

Ti amo, infanzia. Amo te che non sei madre (scusa, madre mia, ti preferisco una donna) né sorella. Né figlia o figlio. Ti amo – e che m’importano là dove ti amo le discendenze dei nostri padri e i loro desideri di sembianze d’uomo. E le loro istituzioni genealogiche – né marito né moglie. Nessuna famiglia. Nessun personaggio, ruolo, funzione – le loro leggi riproduttive. Ti amo: il tuo corpo là qui ora. Io/tu ti/mi tocchi, può bastare perché ci sentiamo vivere.

Apri le tue labbra, non aprirle semplicemente. Non le apro semplicemente. Tu/io non siamo né aperte né chiuse. Mai ci separiamo, semplicemente: non si può dire una sola parola. Essere prodotto, uscito dalle nostre bocche. Tra le tue/mie labbra tanti canti, tanti dire sempre si rispondono. Senza che mai uno, una sia separabile dall’altra. Tu/io: fanno sempre tanti alla volta. E come uno, una, dominerebbe l’altra? Imponendo la sua voce, il suo tono, il suo senso? Esse non si distinguono. Non significa che si confondano. Non ci capite niente? Neanche loro capiscono voi.

Parla ugualmente. Che il tuo linguaggio non abbia un unico filo, un’unica sequenza, un’unica trama, è la nostra fortuna. Viene da ogni parte. Mi tocchi in ogni parte. In tutti i sensi. Un canto, un discorso, un testo, tutti in una volta, perché? Per sedurre, colmare, coprire uno dei miei “buchi”? Non ne ho con te. Le crepe, i vuoti che invocherebbero dall’altro sussistenza, pienezza, completezza, non siamo noi. Che per le nostre labbra siamo donne, non vuol dire che mangiare, consumare, riempirci sia quello che cerchiamo.

Baciami. Due labbra baciano due labbra: I’aperto ci è reso. Il nostro “mondo”. Tra noi il passaggio da dentro a fuori, da fuori a dentro, non ha limiti. Non ha fine. Scambi che si allacciano senza chiudersi mai. Tra noi la casa non ha muri, il prato non ha recinto, il linguaggio non ha circolarità. Tu mi abbracci: il mondo è cosí grande che l’orizzonte si perde Insoddisfatte noi? Sí, se vuol dire c’he non siamo mai finite. Che il nostro piacere è di muoverci, commuoverci, continuamente. Sempre in movimenti: I’aperto non si esaurisce né si riempie.

Tanti dire, insieme, non ce l’hanno insegnato né permesso. Non è un parlare corretto. Certo potevamo -dovevamo?-esibire qualche “verità”, e intanto sentirne, averne, tacerne un’altra. Il risvolto? Il complemento? Il resto? rimaneva nascosto. Segreto. Fuori e dentro, non dovevamo essere uguali. Non conviene al loro desiderio. Velare, svelare, non è la cosa che li attira? Che li tiene piú occupati? A ripetere sempre la stessa operazione. Ogni volta. Su ogni una.

Tu/io si sdoppia dunque per piacere loro. Ma cosí divise in due – una fuori, una dentro – tu non ti baci piú. Non mi baci piú. Fuori, cerchi di conformarti ad un ordine che ti è estraneo. Allontanata da te stessa ti confondi con tutto quello che ti si presenta. Mimi tutto quello che ti si accosta. Diventi tutto quello che ti tocca. Bisognosa di ritrovarti, non fai che allontanarti ancor piú da te. Da me. Assimilando un modello dopo l’altro, passando da un padrone all’altro, cambiando faccia, forma, linguaggio, a seconda di chi ti domina. Staccata(e). A forza di abusi, impassibile travestita. Non ritorni piú: indifferente. Ritorni. impenetrabile, chiusa.

Parlami. Non puoi? Non vuoi piú? Vuoi risparmiarti? Restare muta? Bianca? Vergine? Riservarti quella di dentro? Ma non esiste senza l’altra. Non ti lacerare cosí, in una scelta che ti è stata imposta. Non c’è, tra noi, nessuna rottura tra vergine e non vergine. Nessun avvenimento che ci farebbe donna. Molto prima di nascere già ti tocchi, innocente. Il sesso del tuo/mio corpo non ci viene da tm’operazione. Dall’azione d’un potere, d’una funzione, d’un organo. Senza interventi o manipolazioni particolari sei già donna. Senza dover ricorrere all esterno, già l’altra ti tocca. Inseparabile da te. Sei già, sempre e dovunque, alterata. Questo è il tuo delitto, che non hai commesso: disturbi il loro amore della proprietà.

Come dirti che nel tuo godere non c’entra il male, che gli è estraneo il bene? Che la colpa avviene soltanto quando, privata della tua fessura, su di te ormai chiusa possono iscrivere i loro possessi, praticare le lloro effrazioni, rischiare le loro infrazioni, trasgressioni… E altri giochi della legge. Con cui speculano — e tu? — sul tuo candore. Se noi ci prestiamo, ci lasceremo ingannare, logorare. Distanti, indefinitamente, da noi, per aiutarli a raggiungere i loro scopi. Quello sarebbe il nostro compito. Se ci sottomettiamo alla loro ragione, allora siamo colpevoli. I loro calcoli – volutamente o no – mirano a renderci colpevoli.

Tu ritorni, divisa: non c’è piú noi. Divisa in rossa e bianca, nera e bianca, come ritrovarci? Ritoccarci? Tagliate, (s)partite, finite: il nostro godere si trova a dipendere dalla loro economia. Secondo la quale essere vergine significa non essere ancora contrassegnata per e da loro. Non ancora (resa) donna da e per loro. Non ancora marchiata dal loro sesso, dal loro linguaggio. Non ancora penetrata, posseduta da loro. Da conservarsi in un candore che sarebbe un’attesa, un niente, un vuoto senza di loro. Essere vergine: il futuro dei loro scambi, commerci e trasporti. La riserva per le loro esplorazioni, i loro consumi, i loro sfruttamenti. L’avvenire del loro desiderio. Non del nostro.

Come dirlo? Che noi siamo donne subito. Non abbiamo da esser rese tali, nominate per tali, consacrate e profanate come tali, da loro. Lo eravamo già, era già successo prima, senza il loro lavoro. E la loro storia (le loro storie) rappresenta(no) il luogo della nostra deportazione. Non che abbiamo un territorio per noi, ma la loro patria, con famiglia, focolare e discorso, ci imprigiona tenendoci al chiuso e impedendoci di muoverci. Di viverci. Le loro proprietà sono il nostro esilio. Le loro clausure, la morte del nostro amore. Le loro parole, il bavaglio delle nostre labbra.

Come parlare per uscire dai loro recinti, schemi, dalle loro distinzioni e opposizioni: vergine/deflorata, pura/impura, innocente/maliziosa… Come sbarazzarci di questi termini, liberarci dalle loro categorie, spogliarci dei loro nomi. Sgusciare, vive, dalle loro concezioni? Senza riserva, senza bianco immacolato che sostenga il funzionamento dei loro sistemi. Tu sai bene che non siamo mai finite ma che non ci baciamo se non siamo intere. Che la somma di tanti pezzi – di corpo di spazio, di tempo-interrompe il flusso del nostro sangue. Ci paralizza, ci irrigidisce, ci immobilizza. Più pallide. Quasi fredde.

Aspetta. Il mio sangue ritorna. Dal loro senso. Fa di nuovo caldo in noi. Tra noi. Le loro parole si svuotano. Esangui. Pelli morte. Mentre le nostre labbra tornano rosse. Si muovono, vogliono parlare. Stavi dicendo? Cosa? Niente. Tutto. Sì. Abbi pazienza. Dirai tutto. Comincia con quello che senti, adesso, subito. Il tutto verrà di seguito.

Ma non puoi anticiparlo, prevederlo, programmarlo. Il tutto non è progettabile. Controllabile. Tutto il nostro corpo si muove. Non una superficie che rimanga stabile. Non una figura o linea o punto, che restino fissi. Non una base che tenga. Ma nemmeno abissi. La profondità, per noi, non è una voragine. Dove non c’è crosta, non ci sono precipizi. La nostra profondità: lo spessore del nostro corpo, che si ritocca. Senza sopra sotto, diritto rovescio, davanti dietro, alto basso isolati. Senza spaccature né rotture.

Se tu/io esita a parlare, è perché abbiamo paura di non dire bene, vero? Ma cosa sarebbe bene o male? A che cosa ci conformeremmo parlando “bene”? In quale gerarchia, subordinazione, ci facciamo prendere? Perdere? Che pretesa è questa, di innalzarci in un discorso più valido? L’erezione, non è affare nostro: stiamo così bene sulle spiagge. Abbiamo tanti spazi da distribuirci. L’orizzonte per noi non ha mai finito di girare, sempre aperte. Distese, in una interminabile espansione, abbiamo tante voci da inventare per dire noi dovunque, anche nelle lacune, che il tempo non ci basterà. Il nostro giro non finirà mai, abbiamo tante dimensioni. Se vuoi parlare “bene”, ti tendi, ti stringi, per salire. E tesa verso l’alto, ti allontani dall’illimitato del tuo corpo. Non ti elevare, ci lasci. Il cielo non è lassù, è tra noi.

E non ti contrarre sulla parola “giusta”. Non c’è. Nessuna verità tra le nostre labbra. Tutto può andare bene. Tutto può essere scambiato, senza privilegi nè rifiuti. Scambiato? Tutto si scambia ma senza commercio. Tra noi, niente proprietari né acquirenti, niente oggetti determinati né prezzi. I nostri corpi si accrescono dal godere insieme. La nostra abbondanza è inesauribile: ignora la scarsità e l’opulenza. Nell’abbandono senza riserve e senza incetta, i nostri scambi sono interminabili. Come dirlo? Il linguaggio che conosciamo è così limitato…

Perché parlare, mi dirai tu? Sentiamo le stesse cose nello stesso momento. Le mie mani, i miei occhi, la mia bocca, le mie labbra, il mio corpo non ti bastano? Non è sufficiente quello che ti dicono? Potrei risponderti: sì. Ma sarebbe troppo semplice. Troppo detto per rassicurarti/ci.

Se non inventiamo un linguaggio, se non troviamo il suo linguaggio, il nostro corpo avrà troppo pochi gesti per accompagnare la nostra storia. Ci stancheremo degli stessi, lasciando il nostro desiderio latente, sofferente. Riaddormentate, insoddisfatte. E restituite alle parole degli uomini. I quali, sanno da tanto tempo. Ma non il nostro corpo. Sedotte, attirate, affascinate, estasiate del nostro divenire, resteremo paralizzate. Prive dei nostri movimenti. Immobilizzate, mentre siamo fatte per cambiare continuamente. Senza aver bisogno di balzare o di cadere. E – senza ripetizione.

Continua, senza affanno. Il tuo corpo oggi non è lo stesso di ieri. Il tuo corpo ricorda. Non occorre che tu ricordi. Che conservi, conti, capitalizzi l’ieri nella tu testa. Nella tua memoria? Il tuo corpo dice ieri in ciò che vuole oggi. Se tu pensi: ieri ero, domani sarò, tu pensi: sono un po’ morta. Sii quello che diventi, senza attaccarti a quello che avresti potuto essere, a

quello che potresti essere. Senza essere mai fissata. Lasciamo le cose decisive agli indecisi. Noi non abbiamo bisogno del definitivo. Il nostro corpo, là qui ora, ci dà ben altra certezza. La verità è necessaria a quelli che si sono tanto allontanati dal loro corpo da averlo dimenticato. Ma la loro “verità” ci immobilizza, ci pietrifica, se non ce ne distacchiamo. Se non ne disfiamo il potere tentando di dire, là qui subito, come siamo commosse.

Ti muovi. Non resti mai ferma. Non ti fermi mai. Non sei mai. Come dirtelo? Sempre altra. Come parlarti? Seguendo il flusso, senza mai indurirlo. Gelarlo. Come far passare nelle parole questa corrente? Molteplice. Senza cause, sensi, qualità semplici. E tuttavia non scomponibile. Movimenti che non si traducono in un itinerario con un’origine ed un fine. Fiumi senza mare unico e definitivo. Senza argini stabiliti. Corpi senza margini definiti. Mobilità incessante. Vita. E quelle che magari chiameranno le nostre pazzie, agitazioni, commedie o bugie. Talmente sono estranee a chi pretende basarsi sul solido.

Parla ugualmente. Tra noi, il “duro” non è necessario. Conosciamo abbastanza i contorni dei nostri corpi per amare la fluidità. La nostra densità non ha bisogno d’essere perentoria, rigida. Il nostro desiderio non inclina al cadaverico.

Ma come non morire quando stiamo lontane l’una dall’altra? E’ il nostro pericolo. Come aspettare che tu ritorni, se, stando distante, non puoi essere anche vicina? Se qualcosa d’ancora sensibile non ricorda, qui, ora, il contatto dei nostri corpi.

Aperte all’infinito della nostra lontananza richiuse sull’insensibile dell’assenza, come continuare a viverci? Impastate di dolore, per un lutto. Bisogna proprio che impariamo a parlarci per riuscire a baciarci da lontano. Certo, ritoccandomi mi ricordo di te. Ma sono state dette tante parole, tante parole ci parlano, che ci separano.

Inventiamo rapidamente le nostre frasi. Che dovunque e continuamente il nostro abbraccio non s’interrompa. Siamo così sottili che nessun ostacolo ci resisterà, che niente potrà opporsi al nostro ritrovarci, magari fuggitive, purché troviamo dei mezzi di trasmissione con la nostra densità. Passeremo attraverso tutto, impercettibili, senza sciupare niente, per ritrovarci. Nessuno ci vedrà niente. La nostra forza è di essere così poco resistenti. Loro sanno da tanto tempo quanto vale la nostra elasticità nel piacere di stringerci, di costringerci. Perché non ne godiamo tra noi? Invece di sottometterci al loro stampo. Fissate, marchiate, immobilizzate. Separate.

Non piangere. Un giorno riusciremo a dirci. E quello che diremo sarà ancor più bello delle nostre lagrime. Fluidissime.

Già ti sto portando con me, dovunque. Non come un bambino, un fardello, un peso. Magari amato, magari prezioso. Tu non sei in me. Non ti contengo né ti trattengo: nel mio ventre, tra le mie braccia, nella mi testa. E nemmeno nella memoria, nello spirito, nel linguaggio. Sei lì, come la vita della mia pelle. Certezza d’esistere al di qua d’ogni apparenza, d’ogni rivestimento, d’ogni appellativo. Certezza di vivere perché tu raddoppi la mia vita. Non vuol dire che tu mi dai o subordini la tua. Che tu viva mi fa sentir vivere, purché tu non sia né la mia replica né la mia imitazione.

Come dirti altrimenti: noi non siamo che in due? Noi siamo in due al di qua dei miraggi, delle immagini. Degli specchi. Tra noi, una non è quella “vera” e I’altra la copia, una originale, I’altra il riflesso. Noi che nella loro economia sappiamo simulare alla perfezione, tra noi ci rivolgiamo senza simulacro. La nostra somiglianza non ha bisogno di sembianza: perfino già nel nostro corpo. Toccati, toccami, lo “vedrai”.

Non c’è bisogno che ci facciamo una seconda figura, allo specchio, per essere “in co(p)pia”. Che ci ripetiamo: una seconda volta. Prima d’ogni rappresentazione, siamo due. Lascia avvicinarsi queste due che il tuo sangue ti ha fatte, che il mio corpo ti ricorda, vive. Hai sempre la bellezza toccante d’una prima volta, tu non ti lasci fissare in una riproduzione. Sei sempre commossa per la prima volta, non ti immobilizzi in nessuna forma di ritorno.

Senza modello, senza unità di misura, non diamoci mai ordine, imperativo, proibizione. Che gli unici imperativi siano inviti a muoverci: insieme. Non facciamoci mai la legge o la morale. La guerra. Non abbiamo ragione. Nessun diritto di criticarmi/ti. Se tu/io giudica, noi cessiamo d’esistere. E quello che amo in te, in me, in noi non ha luogo: la nascita mai conclusa, il corpo mai terminato, la faccia che continua a modellarsi. Le labbra mai aperte o chiuse su una verità.

La luce, per noi, non è violenta. Micidiale. Il sole, per noi, non si alza né tramonta semplicemente. La notte e il giorno si mischiano nei nostri sguardi. Nei gesti. Nei corpi. Non abbiamo, in senso stretto, un’ombra. Nessun pericolo, tra noi, che l’una o l’altra sia un doppio più oscuro. Voglio restare notturna e ritoccare in te la mia notte. Dolcemente luminosa. Non pensare soprattutto che io ti desideri brillante come un faro. Dominatrice, altera, su quello che ti circonda. Separare la luce dall’oscurità sarebbe rinunciare alla leggerezza delle nostre combinazioni. Indurire l’eterogeneità che ci fa continuamente tutta(e). Dividerci con paratie stagne, farci a pezzi, tagliarci in due o più. Mentre noi siamo sempre l’una e l’altra, al tempo stesso. Non possiamo distinguerci così. Senza finire di nascere: tutta(e). Senza limiti né bordi che non siano quelli dei nostri corpi in movimento.

E non possiamo smettere di parlare se non per un senso, impostoci della misura. Non offuscarti. Io – continua. Nonostante le molte costrizioni artificiali di spazio e di tempo, io –continuamente-ti abbraccio. Che altri ci facciano feticci, per separarci, è affare loro. Non lasciamoci immobilizzare in questo decoro.

E se tante volte insisto: non, né, senza… è per ricordarti, ricordarci che noi non ci tocchiamo se non nude. E che per ritrovarci così, abbiamo molto da svestirci. Da tante rappresentazioni e apparenze, che, ci allontanano l’una dall’altra. Ci hanno così a lungo avvolte secondo il loro desiderio, ci siamo così spesso agghindate per piacere loro, che abbiamo dimenticato la nostra pelle. Fuori della nostra pelle, restiamo distanti. Tu ed io scostate.

Tu? Io? E’ detto fin troppo. Troppo concluso tra noi: tutta, tutte.

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