io a Genova non c’ero voluta andare.
nel mischione di questi giorni in cui tutti sembrano dover ricordare ho ritrovato ferite vecchie quasi sanate e alcune zone di cancrena: il senso di colpa, ad esempio, non passerá mai.
la sensazione che il mio istinto di sopravvivenza passasse sopra ai corpi dei miei fratelli e delle mie sorelle m’ha fatto sentire una traditrice per tanti anni – eppure allora ero convinta di fare la scelta migliore e tuttoggi credo che per me, a quei tempi, fosse l’unica scelta possibile.
sono una persona molto emotiva e avrei fatto la fine di quel compagno straniero che era impazzito e scappato e che chi lo sa se sta scappando ancora…
la storia mi puzzava giá da quando era uscita. parlavo con le persone che ritenevo punti di riferimento, nei mesi che precedevano il G8: scusate, ma avete presente Genova regá? tutte stradine strette e poi solo il mare: ci sfracellano sicuro. é un trappolone. e poi oh, ma per chi andiamo a fare la carne da macello? per quel panzone di Casarini? ma che davvero?
le Cassandre non sono mai apprezzate: nessuno rispondeva a tono alle mie domande e io non ero in grado di articolare discorsi complessi nell’agone dell’assemblea.
ero impaurita, incazzata e impotente.
ero incastrata giá da un paio d’anni in una storia d’amore sbagliata con un amante della prima linea, che non avrebbe perso quell’appuntamento per niente al mondo e che si sentiva in qualche modo investito d’una missione.
io come al solito guardavo il lato umano e giá me lo immaginavo fare il galletto con migliaia di giovincelle trepidanti. questo dato aggiungeva un personalistico, imbarazzante disagio alle altre perplessitá umane e politiche.
ma quello che mi spinse a scappare piú lontano che potevo fu la faccia candida di mia madre, che un bel giorno di maggio mi annunció: a Genova veniamo anche io e papá.
mia madre era andata a due manifestazioni in vita sua e non aveva proprio idea di cosa stesse per succedere. pensai che se menavano mia madre mi toccava diventare un serial killer e cazzo, no, avevo altri progetti per la testa…
in 30 secondi netti presi una decisione pesantissima per i miei 26 anni di ragazza di periferia: No, mamma, io a Genova non ci vado e neanche voi. Io pensavo di farmi tre mesi.. che ne so, a New York, cosí imparo un po’ meglio l’inglese – poi m’hanno detto che si trova lavoro facile e cosí magari alzo due lire…
mia madre rimase di sasso – fino a quel momento per la politica avevo sempre rinunciato a qualsiasi cosa, ora mancavo l’appuntamento del secolo per fiondarmi nel ventre della bestia, per nascondermi nel cuore marcio del capitalismo e perché? per alzare due lire? non mi credette ma capí al volo (come fanno le madri) il disagio e la paura e mi disse senza sorridere Vabbé… allora noi senza te non andiamo
e me ne andai.
pure l’amante della prima linea rimase male ma da deficiente emozionale qual’era non fu in grado di esprimersi. era solo visibilmente deluso.
l’aveva capito meglio di me che era anche da lui che scappavo e la parte di quello che sfugge l’aveva sempre riservata per se.
ovviamente non fu lui ad accompagnarmi all’aeroporto (mi avrebbe fatto un favore e a lui i favori li dovevo strappare – non doveva avere la sensazione di essere troppo accondiscendente, diceva che sennó mi abituavo male).
peró quando giá avevo passato il varco controlli mi chiamó al telefono: era dall’altra parte del plexiglass con la faccia da cane bastonato e mi fece riavvicinare per darmi un regalo – un grandangolo (usato) per la telecamera, la cui lente era sfregiata da una bella riga che peró in ripresa non si notava tanto e che io che avevo una camera di merda potevo tranquillamente usare, tanto lui ne aveva uno nuovo.
grazie e addio, pensai, pure se lo sapevo che non era vero.
a New York stavo in una stanza senza finestre a GreenPoint, quartiere polacco di Brooklyn, insieme a due compagni di Roma. ascoltavo Missy Elliot e lavoravo in un ristorante italiano. facevo addominali dell’anima, cercavo di schiodarmi dalla testa la necessitá di quell’amore malato, fantasticando su come proseguire la fuga: volevo andare in Messico, come minimo.
giugno passó in un lampo e all’inizio di luglio avevo addirittura un date (che sarebbe una persona con cui esci e che prima o poi ce caschi). frequentavo la sede di Indymedia, cominciavo a conoscere un po’ di persone carine e ad ambientarmi.
poi vennero i giorni di Genova.
della manifestazione del giovedí m’arrivarono echi di gioia che mi fecero tirare il fiato: vuoi vedere che m’ero sbagliata, ammazza che paranoica demmerda che so’, chissá come si diverte l’amante della prima linea (non devo pensarlo non devo pensarlo non devo).
allora per festeggiare, io che non uscivo mai (principalmente per risparmiare) decido di darmi una botta di vita e me ne vado al PS1, fighissimo museo di Queens dove all’esterno c’é la musica e si balla sulla sabbietta tra gli spruzzetti d’acqua ed é tutto molto molto cool.
vado con le mie amiche, il mio date (che era cinese e al quale alla fine non ho dato mai manco un bacio, per la cronaca) e passo un pomeriggio meraviglioso. era sabato, in Italia era appena passato il venerdí ed era giá successo di tutto.
e io non sapevo un cazzo.
quando torno a casa il messaggio in segreteria di Emilio, uno dei miei coinquilini, mi gela. é un secchissimo Mi chiami appena puoi? che vabbé che Emilio é decisamente laconico ma io giá comincio a sentirmi male. lui é a lavorare a Miami in quei giorni – accendo il computer mentre lo richiamo ma il computer é piú lento di lui che mi dice Ao guardi nattimo che hanno ammazzato uno e dice che é romano…
mi gira tutto.
apro Indymedia e cado in un vortice d’orrore.
piango. ovviamente (e stupidamente) chiamo subito la prima linea guadagnandomi il primo d’una lunga serie di meritatissimi vaffanculi.
(con questo mio ex amore non parlo piú da alcuni anni: la scelta non é stata mia ma alla fine l’ho accettata con sollievo – ci sono situazioni inconciliabili e irrisolvibili che l’unica é cercare di dimenticare il dimenticabile… peró visto che gli anni non passano invano mi é pesato, a volte, non potergli dire alcuni grazie o scusa. ecco, tipo per le telefonate che gli feci in quei giorni lí mi cospargo il capo di cenere e chiedo scusa a lui e all’umanitá intera, per essere stata mortalmente cretina ed egoista)
passano i giorni e io cosí lontana e straziata e tutti i miei fratelli e le mie sorelle all’inferno e lacrime, lacrime, afa, lacrime e semi di girasole – di giorno in quella merda di ristorante, di notte a soffrire su Indymedia, preparando un dossier per una performance che la devo proprio fare perché come cazzo fate a parlare dell’aria condizionata, stronzi yankee demmerda, ma che non lo sapete che cosa é successo?
(non la faró mai la perfo, parteciperó ad altre inziative di comunicazione sui fatti di Genova da dentro un microonde, come spiego sotto)
per quasi un mese sono un’anima in pena. dimentico il Messico, dimentico la fuga e l’esercizio dell’istinto di sopravvivenza e voglio solo tornare in Italia a riabbracciare la gente che amo.
poi l’amante della prima linea decide che la prima linea si sposta a New York e mi viene a trovare, facendomi passare dalla padella al microonde di cui sopra.
sempre per rimanere in tema di elettrodomestici, i nostri 10 giorni d’amore e riconciliazione e ripiglio finiscono che l’ultima notte mi tira un ventilatore sulla schiena (Emilio, ora lo sai perché non funzionava piú).
torno in Italia con una bella cicatrice a stella alle mie spalle che mia madre mi fa Ma che é? e io che non m’ero accorta d’averla butto lí un letterario Ho intruppato in una porta, ma’.
invece era che ce l’avevo pure io, una ferita di Genova.