Ce ne fottiamo di essere compatibili col loro presente, noi vogliamo adeguarci al nostro avvenire.
Di fronte all’evidenza della catastrofe c’è chi si indigna e chi ne prende atto, chi denuncia e chi si organizza. Noi siamo dalla parte di chi si organizza.
Viaggiando verso il Simposio di cui ho già scritto, mi sono riletta Ecografia di una potenzialità, testo di Tiqqun che potete trovare for free sul blog delle Ribellule e che ora avevo (finalmente!) gli strumenti per leggere, dopo averlo tante volte abbandonato.
Gli spunti che contiene sono numerosissimi, ma mi sembra importante la questione di metodo che riporta alla differenza alcune pratiche importanti. Io del femminismo della differenza condivido quasi niente in senso di teoria filosofica (preferisco di gran lunga l a performatività del queer) ma devo dire che l’importanza delle pratiche che ha fondato gli restituisce l’importanza che si merita.
Ma perché sto qui a scrivere un pippone su questa storia?
Perché a scervellarsi sullo sciopero precario, ci si rende conto di quanto, per certi versi, il metodo della differenza ci si adatti. In primis perché i precari e le precarie, come le donne, sono trasversali e in cerca di una identità, che, molto probabilmente non troveranno mai definita e chiara come quella dell’”operaio”. In secondo luogo perché hanno avuto bisogno di narrarsi e hanno bisogno di relazionarsi per trovare forza. Per finire, perché lo sciopero che serve è uno sciopero umano e non riguarda il tempo del lavoro, ma piuttosto quello della vita, perché come sappiamo per precari e per donne, questi tempi sono coincidenti.
D’altra parte “Rubare, picchiare, lavorare o fare sciopero sono atti politici che parlano da soli e non hanno alcun bisogno di traduzione, sono auto-evidenti, portatori di un senso immediato che condiziona sia la presenza che lo stato d’animo. Allo stesso modo, far da mangiare, allevare bambini, amare o no il proprio marito sono altrettanti discorsi, che il potere fa passare per rumori di fondo.”
Unica cosa che condivido ma non approvo rispetto a Tiqqun, è la questione sulle rivendicazioni. Obiettivi ci vogliono, per rendere la lotta palpabile. Non sarà certo il welfare metropolitano a salvarci, ma ripensare spazi-vite-denari-futuri&passati-migrazioni che attraversano le nostre città è sicuramente un passo di immaginazione che ci serve, perché altrimenti sarà difficile muoversi e soprattutto far muovere tutto il disagio che ci sentiamo addosso. Il salto che ci vuole è quello tra l’essere desiderabile e il desiderare e il godere. Anche dell’insieme. Il godere di dire No e di dire un sacco di Sì.
Per concludere, prima della filippica odierna (un copia incolla infinito dall’Ecografia), una santa, perché anche se non a tutte piace, io la mia santa in Paradiso la voglio…chiamatemi vetero, ma come dice qualcun*, meglio vetero che etero!
1. La S-figa
“A chi appartiene questo corpo che invecchia, ingrassa, si sforma, mi domanda del lavoro e della cura per restare conforme ai parametri del desiderabile? Desiderabile per chi? Si scava un abisso, allora, fra quelle che lavorano al proprio valore aggiunto e quelle che fanno sciopero. Ma le conseguenze sono quotidiane e definitive: sono io stessa il mio oggetto di sciopero o il mio fulgido lavoro (…) Sei gratificata, mia cara, e più lo sei, più sei dipendente; più la tua vita è non conforme, più fatichi a tenerla insieme. (…) Ora che il patto sociale è definitivamente sciolto, le donne sono benvenute ovunque, e c’è chi ne è felicissimo. Fino a ieri restavano saggiamente davanti alla porta, ora opprimono in Parlamento, falsificano la realtà sulla stampa, sono sfruttate negli stessi lavori degli uomini, sono nulle come loro, persino un po’ di più, causa l’entusiasmo che dedicano a essere complici in modo zelante delle peggiori lordure.
Ci si domanda, in effetti, perché non le si sia utilizzate prima.
E’ sorprendente: amano tutto, la merce come la maternità, il lavoro come il matrimonio; millenni di docilità femminile si riversano in centinaia di piccoli flussi di benessere riformista o reazionario al femminile.
Del resto, le donne attuali non amano i Bloom, che trovano passivi e troppo poco innamorati dei loro oppressori. Di tanto in tanto si lamentano: non sono nemmeno più capaci di sottometterci. (…) La femminilizzazione del lavoro è stata in Occidente la risposta ad un bisogno di modernizzazione dell’apparato produttivo; semplicemente lo sfruttamento delle donne al focolare non bastava più. Il fordismo era maschio, il suo orgoglio, le mani sporche, la tuta blu, la forza bruta nelle lotte come in officina. Il lavoratore era un professionista del suo stesso sfruttamento, un dilettante nella vita. La produzione era nelle sue mani, la riproduzione era il luogo della sua incompetenza. Solo la ricarica della sua forza-lavoro non era più il ‘suo problema’ ma quello di sua moglie, al pari della cura dei bambini e del mantenimento della casa.
Il lavoratore fordista attraversava una via carica di macchine e di fatica, rientrava a casa sporco e svuotato tutti i giorni in una cellula familiare dove i corpi erano addomesticati e toccati diversamente da quelli dei suoi colleghi al cimitero libidinale della fabbrica, moriva ignorante e pieno di rabbia, spossessato di una potenzialità di cui non conosceva neppure il nome, di una sofferenza della quale non aveva nemmeno localizzato l’origine.
Il rifiuto delle donne di collaborare a mantenere quest’ignoranza di vita sponsorizzata dal Capitale fa parte di quello che chiamo femminismo estatico. Il suo scandalo consisteva nel parlare la lingua del piacere e non quella della rivendicazione, la sua novità era nel trarsi fuori da quella sfera strategica che forza la contestazione e il suo oggetto a vivere in una contiguità il più delle volte fatale. (…) Le donne si decostruiscono in quanto donne da molto tempo, ma questo non è sufficiente a mantenere la promessa di una libertà politica che unisca mezzo e fine: ‘Anche se una donna chiede la riparazione di un torto, e la ottiene, non conoscerà mai la libertà ( … ). La libertà è il solo mezzo per raggiungere la libertà’ ( Non credere di avere dei diritti ).”
2. Scioperi
“‘Fare e disfare la tela di un tessuto sociale impregnato dell’ ignoranza dei corpi, del piacere, dei bambini, dei sentimenti è un lavoro che non conosce ferie né ricompensa. Ciò che obbliga così tante donne a galleggiare nello strato più superficiale dell’esistenza, fra paura e frivolezza, non trova ancora orecchio che lo intenda, nessuna lotta per sfidarlo. Se noi facessimo sciopero non lasceremmo prodotti invenduti o materie prime non trasformate,
ecc.; interrompendo il nostro lavoro non paralizzeremmo la produzione, ma paralizzeremmo la riproduzione quotidiana della classe operaia.
Questo colpirebbe al cuore il Capitale perché diventerebbe uno sciopero effettivo anche per quelli che normalmente fanno sciopero senza di noi; ma , a partire dal momento in cui non garantiremmo più la sopravvivenza di quelli a cui siamo legate affettivamente, avremmo noi stesse delle difficoltà a continuare la lotta.’ (Coordinamento emiliano per il salario al lavoro domestico, Bologna 1976) (…) Non c’è verginità dalla parte degli oppressi, degli esclusi dalla storia, che siano donne, minoranza o classe; al contrario, l’oppresso è colui che non ha altra scelta che di partecipare alla macchina della dominazione, anche se non ne è che il prodotto più dipendente e meno capace di autodeterminazione.
E’ nella rottura del gioco significante che sostiene l’offensiva perenne per farci identificare con noi stessi che possono svilupparsi prospettive per una pratica di libertà. Quello che bisogna combattere è la nostra ultima riluttanza a lasciar parlare i corpi sofferenti per imprigionarli in un ‘io’, perché è proprio per questo motivo che la dominazione prende piede, negando quest’’io’ quando rivendica l’indipendenza e facendolo funzionare di nuovo quando fa vedere la tossicità di una vita incasellata sotto il giogo del regime.
Ciò che si deve far tacere è il discorso del biopotere, tanto sulla nostra sofferenza che sul nostro godimento.
Ogni pratica di libertà parte da qui.(…)
La forza del femminismo era stata di non proporre modelli di liberazione, ma una forma di libertà coestensiva all’esistenza, una forma di vita che fosse anche una forma di lotta.
C’era, qui, una non disponibilità senza precedenti, che ha senza dubbio contribuito a rendere il movimento femminista molto antipatico, e che si giustificava affermando che ‘la disponibilità è finita per divenire forzatamente la sola condizione di sopravvivenza per le donne. Pensare a vivere solo facendo vivere altri: sembra che le donne non abbiano altro modo per legittimare simbolicamente la propria esistenza. Questa è la condizione più drammatica e più difficile da modificare’ ( Convegno dell’Umanitaria, 1984 ).
Il lavoro sotterraneo della donna, al pari della sua congruenza con la vita, non può arrestarsi che con uno sciopero selvaggio dei comportamenti, uno sciopero umano, che esca fuori dalle cucine e dai letti, che prenda la parola nelle assemblee. Questo sciopero umano non avanza nessuna rivendicazione, ma piuttosto deterritorializza l’agorà, rivela il ‘non politico’ come luogo di ridistribuzione implicita delle responsabilità e del lavoro non remunerabile. Donne del movimento italiano ci hanno spiegato: ‘Noi non troviamo criteri né siamo interessate a separare la politica della cultura, dell’amore, del lavoro. Una politica così, separata, non ci piace e non sapremmo farla’( L.Cigarini, L.Muraro, Politica e pratica politica, in “Critica marxista”, 1992 ).
Quanto è avvenuto con la transizione verso il post-fordismo, che ha meglio integrato le donne nella sfera lavorativa più di qualsiasi altro modo di produzione anteriore, fu una indifferenziazione incrociata dello spazio-tempo del lavoro e di quello della vita. Sempre di più i lavoratori si ritrovano nella situazione di Bartleby, che fu esclusivamente femminile fino alla fine del ventesimo secolo in Occidente, ma preferiscono non impuntarsi, per il momento. Il lavoro e la vita sono incastrati l’uno nell’altra come forse mai prima
d’ora, e questo vale per entrambe i sessi; l’oppressione economica che fu femminile è ormai unisex, e lo sciopero umano appare come l’unica soluzione possibile. Poiché non preferire equivale a questo punto a preferire di non essere un contabile, un telegrafista, una donna, e questo non si può fare se non in molti; la preferenza negativa è innanzitutto un atto politico: ‘Io non sono ciò che tu vedi’ muove verso un ‘siamo un altro possibile, adesso’. Non credendo più a quello che gli altri dicono di te, opponendo l’intensità politica della tua esistenza alle mondanità della riconoscenza, non volendo potere, soprattutto – perché il potere mutila, il potere esige, il potere zittisce, e qualcun’altro parlerà al tuo posto (…) Lo sciopero umano non esige – in un certo senso, ne è persino il contrario – una rivoluzione sessuale, ma una rivoluzione psicosomatica. La questione epistemologica è qui una questione affettiva che decide del nostro rapporto col mondo; la questione politica è una questione esistenziale che mette in gioco il nostro rapporto col mondo. Lo sciopero umano affronta l’economia mercantile indirettamente: minandone le due basi, l’economia psichica e quella libidinale.
E’pericoloso.
Sì, è pericoloso, ed è bellissimo.
D’altronde ciò che è senza pericolo è senza dignità.
Abbiamo reso la femmina amabile per la sua fragilità; l’abbiamo consacrata all’amore rendendola incapace di vivere, trasformando la sua forza in una serie di pericoli che l’obblighino a rifugiarsi fra le braccia necessarie dell’uomo. Abbiamo bisogno, adesso, di un pericolo che escluda ogni riparo, di passioni che vadano oltre la compassione.
L’eroe era colpevole d’ignoranza. Noi gli ritiriamo la licenza di combattere, cessando di compiangerlo e di scusarlo. Millenni di cultura hanno fatto entrare in testa agli uomini la convinzione che non devono avere paura di morire e hanno prodotto nei loro ultimogeniti la paura di vivere. La lotta contro questa paura segna l’inizio della guerra partigiana, dove ogni forma-di-vita è anche una forma di lotta, che appare a sprazzi negli atti che avvengono dietro le sue linee.
Quel che importa, in fondo, non è ciò che teniamo a mente della storia strana e contraddittoria del femminismo estatico, ma ciò che demolisce, i piccoli collassi interiori che seguono chi si scrolla di dosso le familiarità.
Non porta a niente? Sì!
Sì, Sì!
Fa posto. Posto per vivere. Per ridere. Per lottare.
‘Distruggere ringiovanisce’ scriveva Benjamin, ed aveva ragione.
‘Sebben che siamo donne paura non abbiamo…’
cantava tutte le mattine, dopo essersi alzata, una delle
amiche con le quali dividevamo la casa delle nostre
povere vacanze invernali , mescolando i nostri bambini
finché non divennero adulti. Cantava piegata in due,
raccogliendo maglioni e calze, riannodando stringhe o
scopando per terra.
“ Almeno non cantare!” le dicevano per farla smettere.
“ Tu canti la canzone di lotta delle mondine mentre
lucidi la vita altrui!”. Alzava la testa e sorrideva come
per scusarsi dell’umile entusiasmo che la trasportava,
ma i suoi occhi brillavano d’intelligenza, di gioia
cosciente. Il 68 era lontano da venire e con queste
parole lei cantava la libertà conquistata, la fierezza delle
idee, la soddisfazione provata per la ricerca alla quale si
consacrava nel tempo ritagliato al lavoro, alla scuola
e alla cura della famiglia, cantava, in fondo, il piacere
di quei giorni di vita corale,del contatto al di là dell’abitudine,
persino con i bambini , anche se pagato con servizi
minuscoli e continui.
Luisa Adorno, Sebben che siamo donne