[un piccolo omaggio alla mia occupazione preferita nei tramonti di fine estate.
scritto e buttato online senza neanche rileggere: sto incartata su una roba impegnativa e avevo bisogno di buttar giù una storia piccola e porca in prima persona]
Raccolgo more nel cammino sterrato appena fuori dal paese.
Ho un vestitino corto di cotone leggero, che mi piace tanto come mi si stringe addosso ma trovo un po’ imbarazzante, per altri versi: è bianco a fiorelloni colorati e mi fa sembrare una che non s’è arresa alla sua etá.
Mio padre usava spesso questo modo di dire. “Una che non s’era arresa” era per lui il sinonimo di una donna disprezzabile perchè incapace di conformarsi coi limiti imposti dall’invecchiamento. Anche quando ancora non avevo una coscienza politica questo giramento di frittata semantica mi suonava proprio strano: una che non si era arresa per me era una rispettabile, quando non ammirabile. Ci ho messo qualche decennio a prendere in considerazione il concetto di ritirata strategica: per indole e ideologia il mio orizzonte era Stalingrado e prenderle pure forte pur di non ammettere “Mi arrendo”. Non era solo la reazione di figlia ribelle: mio padre aveva un universo di valori tutto suo e tutto scombussolato che non era nemmeno ascrivibile al maschilismo semplice, era un casino e basta. In compenso mia madre aveva le ovaie d’acciaio temperato, faceva sempre le cose di testa sua e si vestiva malissimo, da giovane cosí come da vecchia. Diciamo che non le importava molto di come vestiva e questa poca cura per l’apparenza devo proprio averla presa da lei.
È piú di un anno che ho quarant’anni e certe volte mi vesto in maniera ingenua, per cosí dire. Che come oggi lo vedo che questi fiorelloni fanno cagare, peró neanche me ne importa molto in fondo. Forse risulterebbero imbarazzanti pure a vent’anni, sono io che ultimamente mi faccio piú problemi… peró non mi arrendo, questo è certo: la resa implicherebbe la ricerca di un altro vestito e dover pensare a come mi sta e decidere che va bene. Ma bene per cosa? Sto andando da sola a raccogliere more, mica a un colloquio di lavoro e tantomeno a rimorchiare.
È il tramonto. L’estate finisce ma fa ancora troppo caldo per muoversi agilmente sotto il sole. Ogni tanto passa qualche macchina e guardo sempre chi c’è dentro: saró pure una quasi vecchia per l’anagrafe, ma sono sempre una donna sola in una strada isolata.
Le more sono belle gonfie, risplendono in mezzo ai rovi. Il mio cestino si riempie mentre quelle piú molli finiscono nella mia bocca. Le piú grosse sono in alto, impossibili da raggiungere. Penso a quella poesia di Saffo, della mela alta sul ramo piú alto. Mi sento un po’ cosí ultimamente. Alta sul ramo piú alto, irraggiungibile. E pure vestita male.
Mentre ci penso un rovo mi graffia la mano.
Il suono di un clacson. E chi è adesso?
È Andrea.
Lo conosco da dieci anni, lo trovo molto simpatico e anche attraente.
Mi piace ma è quasi sempre fidanzato, quindi gli ho sempre fatto grandi sorrisi ma da una prudente distanza: non mi piace mettermi in mezzo alle storie altrui. E lui è uno preciso: rispetta la sua monogamia seriale e quando è impegnato non s’avvicina affatto.
Si ferma con la macchina, mi chiede se sono buone le more. Io sorrido.
Qualcosa mi fa pensare che con l’ultima ragazzina con cui l’ho visto è andata male.
Me lo conferma: il suo viaggio in Grecia è saltato all’ultimo minuto, sai come sono le ragazzine.
Vorrei dirgli che no, non lo so – lo sa meglio lui perchè non l’ho mai visto accompagnarsi a una di piú di 30 anni ma mi trattengo, perchè suonerebbe male: non ho voglia di mettermi alta sul ramo piú alto. Allora lo guardo e basta e il mio sguardo dice Ho capito. E non come sono le ragazzine, ma quello che vuoi da me, che non sono piú ragazzina da un po’.
Allora dice che anche lui ha voglia di more e che conosce un posto piú avanti e se ci andiamo.
Salgo in macchina col mio cestino e il mio vestito orribile. Mi chiede di me e mentre guida mi guarda.
Io rimango rilassatamente sulle mie.
Arriviamo al posto: alle spalle del rovo c’è un boschetto. È bello, non ci ero mai stata.
Lui mi dice che ci veniva sempre da bambino.
Raccogliamo le more chiacchierando e il sole comincia ad andare giú.
C’è nell’aria quella tensione dei corpi che si chiamano. È quel momento che amo del prima che succeda tutto, del desiderio che frizza sotto la pelle, delle risate imbarazzate, degli sguardi complici. Vorrei che non finisse mai.
Anche perchè è cosí facile rovinarlo…
È piú sicuro fare una battuta cattiva e incrinare la sfera dell’empatia per tornare a mettersi Alta sul ramo piú alto. Mi chiedo se lo faró anche stavolta o se saró capace di giocare.
Decido di smetterla di pensare e di farmi domande.
Entriamo nel bosco.
È bello qui.
Tu sei bella, risponde.
Io non vorrei ribattere ma il mio sopracciglio sinistro si alza da solo.
Prendo una manciata di more e mi riempio la bocca, sperando di riuscire a stare zitta.
Lui forse un po’ capisce, fa la stessa mossa e si avvicina.
Ci guardiamo masticando a bocca piena.
Mi viene da ridere e un po’ di succo di mora scivola dai lati della bocca.
Lui ci appoggia le labbra e poi la lingua.
E poi ci baciamo, un bacio pieno dei semini delle more, che ha il sapore dell’estate che finisce come se fosse una cosa nuova.
Dice che era un sacco di tempo che voleva farlo.
Ora vedo il cielo attraverso gli alberi del boschetto. È buio ormai e si vedono un sacco di stelle.
Prendo una manciata di more e me la schiaccio tra le gambe. Le mutande erano giá partite da un po’. Gli dico sbrigati, che sennó si sporca tutto il mio bel vestito. Lui dice Effettivamente è proprio bello questo vestito.
E poi affonda la bocca, la lingua, tutta la faccia.
E io mi arrendo.