In questi ultimi giorni:
un poliziotto in pensione, per motivi non del tutto chiari ha ucciso due donne e si è suicidato, una donna è stata uccisa dal marito che poi si è suicidato, un padre ha ucciso la figlia perchè non accettava che fosse lesbica ed a Pordenone un tizio ha ucciso la moglie dalla quale si stava separando e poi ha sgozzato anche la figlia.
Fra tutti i precedenti, l’ultimo, il tizio di Pordenone, è marocchino e allora, per modalità e nazionalità, si può scrivere che ha fatto come l’isis.
E l’isis diventa il metro di misura del male.
E’ una questione di titoli: “Uccide la moglie con un’accetta, poi taglia la gola alla figlia. La polizia: “ha fatto come l’isis”; così il Messaggero Veneto, giornale locale, di ieri.
E poi ieri, per caso abbiamo letto questo titolo dell’Osservatore Romano ripreso da Zeroviolenza donne: “La violenza contro le donne strategia di guerra jihadista” dove si parla delle violenze sulle donne perpetrate dallo stato islamico in Iraq, Siria e Nigeria, e allora ci sembra come se si stesse cercando di mettere insieme un teorema che inquadra una violenza capillare, multietnica, diffusa; quella contro le donne, confinandola ad unico contesto culturale storico contingente: il califfato dei tagliagole.
Come se prima nulla fosse stato, come se non avessimo conosciuto stupri etnici e donne ammazzate nei vicini balcani, come se il movente che manda a morte le donne fosse solo il fanatismo religioso, quel fanatismo lì, come se il fatto di poter trovare una comparazione, un “come l’isis” rendesse più precisa, definita e condannabile quella violenza.
No, l’isis non è una unità di misura per il femminicidio; tirarlo in ballo in questo caso è solo un’altra strategia di occultamento delle proprie mancanze e di disvelamento del proprio razzismo e xenofobia.
L’isis è lo strumento utile a non rimediare a nulla, anzi…