Esattamente un mese fa vicino allo stadio Manè Garrincha c’era l’ostensione pubblica della coppa del mondo. In quel luogo, allora, si diedero appuntamento anche i popoli indios di diverse etnie e tribù i quali volevano consegnare al governo una coppa piena di sangue, un dono simbolico per testimoniare della espropriazione continua della loro terra e della loro vita.
Furono attaccati dalla polizia a cavallo con lacrimogeni, spray urticanti e proiettili di gomma.
Si difesero con archi e frecce, i loro attrezzi di caccia e sussistenza.
Le immagini di quella battaglia impari rendono bene il contrasto tra la bellezza della vita, la biodiversità dei popoli vestiti della biodiversità della terra che abitano, e la morte, la cupezza, l’uniformità della repressione che difende il potere, il dominio, la proprietà.
Lo sappiamo che questi mondiali di calcio, più di tutti gli altri, sono la continuazione del colonialismo con altri mezzi.
Ma non solo; sono il grande evento che succhia il sangue (noi stiamo ancora pagando “Italia ’90”), non restituisce niente e lascia rovine.
Ieri abbiamo partecipato al presidio contro i mondiali di calcio, in solidarietà con tutt* quelli che vi si oppongono in Brasile.
La città era semideserta, ma il presidio era doveroso. A suon di videi e volantini, qualc* forse, capirà qualcosa, al di là del pallone.
Qui a Udine, qui un esempio di come si è preparata la coppa, qui un pezzo della storia.