Era una notte fredda, di quelle che se esci lo fai perché hai tutta la voglia di vivere del primo anno di università. Ti imbacucchi, vesti giusta per andare in discoteca, trucchi quel tanto che basta, tanto sei bella, alta, giovane.
Abiti in una città che la natura e lo Stato hanno devastato, alcune mura sono crollate su quelli che sarebbero potuti essere i tuoi colleghi di corso e nessuno le ha ricostruite. La città deserta è stata trasferita in delle oasi di palazzoni, che tristemente guardano quel territorio, devastano i monti e feriscono la memoria storica di uno dei fu più bei capoluoghi d’Italia.
Però sei contenta, sei emancipata dai genitori, puoi costruirti una vita indipendente da fuori sede, andare in discoteca qualche paese più in là.
Per le strade si vedono ogni tanto carri armati e militari, anche se la guerra è finita da tanto. Solo i militari presidiano il territorio devastato. Chi li ha messi là a controllare e reprimere non si preoccupa, come non si è preoccupato di risolvere così il problema dei femminicidi.
Vai comunque in discoteca, ti fermi a bere qualcosa, balli, poi c’è qualcosa che non va, qualcuno ti infastidisce, almeno tre persone, proprio di quelle che dovevano rendere “sicure” le strade dei dintorni. Sono militari che abusano del loro potere come uomini, come funzionari delle forze dell’ordine, come figli di qualcuno importante. Ti costringono a bere, ti costringono a trasformare una serata di gioia, di svago, in un incubo terribile. In almeno tre abusano di te, ti fanno tanto male da farti sanguinare, ti riempono di alcool fino a farti perdere i sensi e continuano a riempirti d’alcool. Contenti e tronfi, sicuri del loro potere, ti lasciano in mezzo alla neve sanguinante. “Spaventati” scappano via.
Qualcuno si accorge di te, qualcuno ti porta all’ospedale. Lì, mentre l’orrore viene riconosciuto da chi ti visita e ti rianima, ma successivamente, nonostante i molteplici comi con cui sei giunta al pronto soccorso, ti vengono dati meno di 20 giorni di prognosi e la denuncia non scatta.
Ma tu non ci stai, con tutta la forza che questo richiede denunci lo stupro e l’aggressione e da lì inizia un processo, che però si scorda che i tuoi infami violentatori erano tre e non uno, ti fa ripetere la violenza e omette il tentato omicidio dalle accuse.
Il processo ha condannato quell’uno, confermando due volte gli otto anni per stupro ma facendo cadere le aggravanti, e non lo ha privato della libertà di vivere i domiciliari e lavorare come autista di ambulanze.
Anche se quella denuncia non è servita a punire i colpevoli del tuo stupro, Rosa, ti ringraziamo per aver messo in luce questa storia anche se non vorremmo sentire mai più storie di questo tipo. Non vorremmo sentir parlare di stupri, in casa o fuori, non vorremmo vedere i militari nelle strade a far finta di renderle sicure e non vorremmo più sentire l’ipocrisia di chi scrive leggi contro il femminicidio dando più soldi alle guardie, che troppo spesso sono le nostre carnefici. Abbiamo sentito parlare di “violenza sessuale” perché una donna aveva dato un bacio (derisorio quanto vi pare) a un poliziotto in Val Susa. La tua storia e quella di tante altre mostrano invece il mondo per come è, in cui le violenze sessuali non sono baci strappati per caso e in cui le forze dell’ordine, forti della divisa, spesso le compiono più che subirle magari a soggetti giuridicamente deboli: ladre, prostitute, immigrate.
Ogni volta che stuprano una, stuprano tutte e noi non ci stiamo.
A Rosa e a tutte le donne che hanno subito violenza i miei auguri per il nuovo anno, per quel che valgono.
Qui, il report dell’ultima udienza del processo.