da Abbatto i Muri:
C’è questo video che vorrebbe fare campagna antiviolenza sulle donne. Scriveva Giovanna Cosenza:
“Non (…) si fanno uscire le donne dal ruolo di vittime se si insiste a rappresentarle come vittime.”
Però in Italia c’è chi ama profondamente il fatto che le donne vittime di violenza si mostrino come vittime/vittimizzate. Se non le definisci in quanto tali ti becchi l’accusa di colpevolizzazione delle vittime. Dunque non colpevolizzarle starebbe nel rappresentarle come martiri, lividi in bella vista, aureola evidente, e in attesa, muta, richiesta di tutela. A questo è finalizzata quella dimostrazione di inferiorità fisica, psicologica, dove si stabilisce che le donne vittime non siano in grado di gestire strumenti di difesa e dunque serve che lo Stato si sostituisca loro in modo autoritario per “salvarle”.
Ed è tutta una politica che coccola l’assenza di reazione delle donne e le esorta ad affidarsi alle istituzioni. Una politica che non produce alcuna critica in direzione di chi alle donne non dà lavoro né strumenti da gestire in autonomia. Sostanzialmente una politica paternalista che stabilisce che le donne vadano salvate sempre e comunque anche quando non vogliono essere salvate.
Per chi sostiene sia necessario che le donne vengano mostrate in senso vittimista saranno vittime anche le prostitute che vogliono fare quel mestiere, saranno auspicati interventi d’ufficio che sovradeterminino le donne stesse, sarà richiesto qualunque intervento, di stampo moralista e censorio, per dirigere il dibattito nella propria e autoritaria direzione ove quella direzione si intenderebbe come l’unica possibile per la salvezza delle donne.
Diversamente non vedi queste persone polemizzare circa la violenza di Stato, quando le vittime non sono invece affatto fotografate in una estetica della violenza, narrando di loro passività e debolezza in direzione di una ulteriore richiesta di tutela. Perché i lividi che una donna becca in piazza per via di un manganello raccontano una lotta in difesa dei propri diritti giusto contro quel tutore che per le moraliste dovrebbe rappresentare il riferimento massimo per la nostra sicurezza.
Sono lividi che hanno effetto scardinante e sovversivo che le donne con gli occhi pesti, artefatti, delle campagne contro la violenza non hanno affatto. Sono lividi che dunque mostrano forza e autonomia e che dicono che le donne lottano, sono forti, si difendono, spesso sono sconfitte, ma di certo non si affidano a tutori che poi hanno controllo sulle loro vite e le malmenano quando sono troppo autodeterminate e in grado di proferire pensieri critici e indipendenti.
C’è che chi fa una critica su questioni di violenza vive in stato di perenne dissociazione, a volte, e non capisce che l’autoritarismo è uno e che la rappresentazione della forza di una donna, che non può essere mostrata a occhi pesti, capo chino, sguardo pieno di vergogna, non passa di certo dalla porno/estetica della violenza che eccita i tutori e legittima ronde fasciste reali e virtuali in difesa della “nostre” donne.
C’è che se combatti l’autoritarismo lo combatti sempre, il patriarcato lo combatti sempre, paternalismi inclusi, perché non esiste un autoritarismo buono. Il tutore non si può sostituire alla forza della mia ribellione in piazza e in casa. Un tutore non mi toglierà mai la forza e la bellezza e l’autonomia della rabbia che va organizzata e misurata per agire tutto questo in termini culturali e concreti.
A chi si affida al patriarcato di Stato offrendo loro sacrifici estetici a legittimazione dei tutori si oppongono donne che dei patriarcati in generale non sanno cosa farsene e che le donne, con o senza lividi, le mostrano ribelli, rivoluzionarie, in fase di indispensabile resistenza. E certo moralismo che esige la vista delle donne tutte piene di lividi e mai resistenti e forti e potenti lo vedo come l’identico moralismo che nelle piazze scambia la resistenza delle persone che esigono diritti per “violenza”. Un moralismo agito da chi poi è pront@ a fare victim blaming sulle vittime della repressione di Stato. Il punto è che la resistenza non è violenza. La resistenza è resistenza e resistere autonomamente ed esigere strumenti di rivolta pubblica e privata non è violenza e tanto meno vorrebbe dire esigere una gestione privata delle violenze. Anzi. E’ gestione pubblica e collettiva. Collettiva. Di tante soggettività insieme. Dal basso.
Cambia proprio la prospettiva. Io voglio strumenti economici, legali, culturali, preventivi, e sarò io a scegliere quali usare per difendermi. Non voglio tutori né voglio che nessuno si sostituisca a me. Se non mi riconosci il fatto che io sono capace di autodeterminarmi e ribellarmi e gestire la mia vita sei tu il mio nemico o la mia nemica. Chiunque tu sia.
E in questo senso il paternalismo che moraleggia e inibisce i dibattiti e le riflessioni di chi si oppone ad un ragionamento impietosamente lesivo dell’autodeterminazione delle donne, fatta salva la libertà di critica di ciascun@, è uno strumento, si, ma non per restituirci credibilità e autonomia. Piuttosto è uno strumento per togliercela e legittimare i tutori. Questi tutori:
Leggi anche:
L’antiviolenza sulle donne che consolida il fascismo
Corpi di Stato: va in scena il salvataggio coatto delle donne
Lo stato che dice di difendere le donne reprimendone l’autodeterminazione
La violenza di genere spiegata a chi non vuol sentire
Il silenzio è dei colpevoli e io non mi sento vittima
Quell’aggravante di femminicidio che piace tanto alle donne di destra
Il ricatto morale e lo squadrismo 2.0 in difesa del femminicidio