Femminismi
Sul Femminismo Islamico
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Il femminismo islamico. Una prospettiva postcoloniale

di Riccardo Antoniucci (da MicroMega)

La casa editrice La Fabrique presenta una raccolta di saggi che raccontano l’universo del femminismo islamico inscrivendolo nel solco delle teorie postcoloniali

Femminismo islamico. Che il binomio non costituisca più un ossimoro, è l’evidenza dei fatti a dirlo: il movimento può ormai vantare una storia ventennale di lotte, una diffusione su scala mondiale e un’importante produzione teorica (1). Eppure, un giudizio unitario su questa corrente è ancora lontano dall’affermarsi, e il femminismo islamico finisce per apparire, in fondo, tanto plurale quanto eterogeneo.

207299_vignette_feminsimesislamiquesÈ proprio questo problema di coerenza che è al centro di un recente volume collettaneo pubblicato in Francia, con il titolo Féminismes islamiques (La Fabrique, 2012). Nel libro compaiono, fianco a fianco, contributi teorici, firmati da alcune delle maggiori esponenti del femminismo musulmano (Omaima Abou-Bakr, Margot Badran, Asma Barlas, Asma Lamrabet), e testi dalla prospettiva più politica, frutto di esperienze militanti come quelle di Zainah Anwar (leader dell’associazione “Sisters in Islam” in Malesia) Saida Kada (presidentessa della francese FFME, “Femmes Françaises et Musulmanes Engagées”) Malika Hamidi, Hanane al-Laham, e Ziba Mir-Hosseini.

Nella maggior parte dei casi si tratta di autrici ben note al pubblico, e inoltre alcuni dei contributi sono traduzioni di interventi già apparsi in lingua inglese. In effetti, per una volta, l’interesse del libro si deve alla curatela, ad opera della giovane sociologa e militante Zahra Ali. La sua, infatti, è un’impostazione forte, quasi da “manifesto”, tutta tesa a individuare una prospettiva unitaria sul movimento. E tuttavia, il punto di vista avanzato è tutt’altro che esente da critiche.

Nella sua introduzione, Zahra Ali parte proprio dal problema della presunta contraddittorietà della definizione del “femminismo islamico”. Si tratta, in realtà, come molte autrici hanno sottolineato, di uscire dal pregiudizio della presunta incompatibilità delle due tradizioni (quella del femminismo e quella della religione islamica) e di affermare la necessità di trovare un posizionamento autonomo rispetto a entrambe. In questo modo, il movimento rivendica per sé come una “via stretta” in cui si possano tenere insieme l’appartenenza religiosa e una prospettiva di emancipazione delle donne.

Successivamente, tentando di approfondire il senso di questo posizionamento, la lente analitica di Zahra Ali cade sulla questione dei rapporti tra il femminismo islamico e il femminismo di matrice occidentale. Storicamente, se non possono dirsi sempre pacifici, questi rapporti sono tuttavia meno tesi di quanto si pensi abitualmente. Peraltro, com’è noto, il mondo arabo non è affatto estraneo a movimenti politici fondati su principi universalistici e laici affini a quelli occidentali, e spesso legati a prospettive politiche socialiste o comuniste (3). Ma l’intento di Féminismes islamques è sottolineare il più nettamente possibile la singolarità del femminismo islamico, e per questo Zahra Ali si adopera per accentuare il dato dell’estraneità del modello politico laico-universalistico rispetto alla cultura musulmana. Ora, per rendere conto di questo rapporto l’autrice sceglie di adottare il punto di vista del confronto tra due “mondi”, l’Occidente e l’Oriente. Il che porta in primo piano, di conseguenza, la questione del colonialismo, come fondo della critica del femminismo occidentale.

È questo indubbiamente il dato più interessante del libro: il fatto che gli strumenti per questa analisi non vengono presi dall’interno della tradizione islamica, ma sono invece attinti dalla teoria postcoloniale e dalla sua critica all’etnocentrismo. Il modello è la denuncia dell’organicità del discorso femminista rispetto alla logica dell’imperialismo. Analisi che però non si applica solo ai Paesi del cosiddetto “terzo mondo”, ma anche alle attuali società occidentali multiculturali (l’obiettivo è sempre puntato sulla Francia), in cui si assiste alla strumentalizzazione di alcuni argomenti tradizionali del femminismo per giustificare politiche di discriminazione delle minoranze etniche e religiose. È quello che è accaduto, per esempio, nel caso celeberrimo della legge francese sul velo islamico.

Così, i riferimenti spaziano da Gayatri Spivak a Chandra Mohanty.  Dal classico “Three Women’s Texts and a Critique of Imperialism” (4), in cui si mostra come le teorie universalistiche del femminismo occidentale ripetano gli assiomi dell’imperialismo, al fondamentale “Under Western Eyes” (5), che mette in luce come sia il concetto stesso di “donna”, in quanto soggetto universale e trascendente rispetto ai suoi attributi locali e storici, a costituire la radice dell’etnocentrismo del femminismo occidentale, anche quando esso si pretende critico rispetto alla sua società di riferimento.

La teoria postcoloniale insegna che la definizione dell’idea di donna nei termini tipici del femminismo occidentale (libera, colta, padrona del proprio corpo) finisce per implicare la produzione, per converso, di un’immagine speculare «della “donna media del terzo mondo” [che] conduce una vita essenzialmente spezzata fra il suo genere femminile (leggi: sessualmente costretto) e la sua appartenenza al “terzo mondo” (leggi: ignorante, povera, legata alla tradizione e alla famiglia, vittimizzata)» (6), e quindi per rinforzare l’imperialismo occidentale. La chiave di volta della critica femminista-postcoloniale al femminismo “classico” è costituita dalla denuncia della pretesa di pre-determinare (aprioristicamente, etnocentricamente) la condizione della donna non occidentale e le modalità della sua emancipazione (per esempio: la priorità politica della questione dell’aborto, del rifiuto dei costumi tradizionali).

Richiamandosi a questo fondo teorico, Féminismes islamiques intende inscrivere il femminismo islamico nel solco di una strategia anticoloniale. Nei termini di Zahra Ali, il movimento propone di “decolonizzare” e di “de-essenzializzare” sia la concezione ordinaria del femminismo che quella dell’islam: “il femminismo islamico si scontra con un duplice essenzialismo: quello che definisce l’islam come una realtà statica, fondamentalmente dogmatica, e intrinsecamente sessista, e [quello che propone] il femminismo [di matrice occidentale] come modello unico, avatar di una modernità occidentale normativa” (p. 16). Parte integrante di questa visione etnocentrica è ciò che definisce «doxa femminista – che rigetta ogni possibilità di articolazione della lotta per l’uguaglianza dei sessi con quella per la difesa della religione musulmana». Il suo rifiuto della prospettiva femminista occidentale è dunque anche una critica della secolarizzazione e la proposta della religione come leva di emancipazione: «La lotta per l’emancipazione delle donne in Occidente è stata caratterizzata da una desacralizzazione delle norme religiose, una liberalizzazione sessuale che è si è data attraverso lo svelamento del corpo, le femministe musulmane propongono una liberazione che propone tutt’altro rapporto al corpo e alla sessualità, un rapporto segnato da delle norme e una sacralizzazione dell’intimità, e da una difesa del quadro familiare eterossesuale» (p. 32). In questa prospettiva, il femminismo islamico afferma la differenza specifica della donna musulmana credente.

Secondo Zahra Ali, queste ragioni permettono di concludere che le femministe islamiche condividono oggi la stessa condizione delle femministe afro-americane degli anni ’70, che si trovarono a costituire parte attiva nei movimenti antirazzisti e di liberazione dei neri negli Stati Uniti, criticando però dall’interno la loro deriva sessista (7). Viene citato così il famoso testo Challenging imperial feminism, di Valérie Amos et Pratibha Parmar, quando afferma chiaramente che: «la teoria femminista mainstream, bianca […] non parla alle esperienze delle donne nere, e quando ci prova adotta spesso ragionamenti e punti di vista razzisti» (8).

L’autrice propone quindi di leggere il femminismo islamico come una ri-attualizzazione di questo fondamentale momento politico, che unisce intimamente lotta contro il razzismo e lotta contro il sessismo.

Come si vede, tentando di costituire una base critica di partenza comune per il femminismo afroamericano, anticoloniale e islamico Zahra Ali vuole andare oltre il momento critico: la sua lettura ambisce a costituirsi come vero e proprio modello per lo sviluppo del femminismo nei paesi non occidentali.

È su questo punto che la prospettiva di Zahra Ali si distanzia anche da quella teoria postcoloniale che, pur riconoscendo la necessità di accompagnare al momento critico-negativo una pars construens in cui dare un contenuto all’aspirazione e alla teoria dell’emancipazione della donna non-occidentale, rimane tuttavia molto più legata all’imperativo teorico di tenere aperto lo spazio di esercizio di una logica alternativa all’etnocentrismo che a quello pratico di percorrere effettivamente, all’interno di questo spazio, una via precisa per il suo consolidamento.

Il femminismo islamico, invece, per il suo carattere primariamente militante, risponde a questo secondo imperativo con chiarezza: affermando una prospettiva religiosa. Infatti, basandosi sulle critiche all’universalismo etnocentrico, esso riempie la differenza specifica della donna del terzo mondo (musulmana) con i contenuti di un islam riformato in senso egualitario. Che resta, tuttavia, essenzialmente legato a un ordine teologico del discorso.

Il maggior pregio di Féminismes islamiques, in fondo, è proprio la nettezza delle posizioni espresse. Eppure, il tentativo che esso mette in atto di innestare il femminismo islamico sul femminismo postcoloniale risulta, a ben vedere, alquanto difficoltoso.

Una prima obiezione potrebbe essere, semplicemente, quella che emerge dalla constatazione che le stesse autrici partecipanti al volume, e specialmente quelle fra loro che maggiormente si occupano di teoria, non hanno mai esplicitato questo legame, collocando spesso, anzi, le loro riflessioni in tutt’altri contesti  filosofici.

Ma, andando più in profondità, la prospettiva “islamica e postcoloniale” lanciata da Féminismes islamiques non può non sollevare delle questioni, che interrogano non tanto il femminismo islamico quanto proprio l’universo delle teorie cui fa riferimento. In una prospettiva postcoloniale, ad esempio, ci si potrebbe chiedere se la via d’uscita religiosa, ermeneutica e, in fondo, teologica, per quanto animata da istanze progressive, sia compatibile con un approccio teorico che fa della storicizzazione e della relativizzazione dei concetti e delle rappresentazioni il suo metodo. O, anche, traducendo la questione sul piano pratico, si potrebbe dare risalto a tutte quelle esperienze di autodeterminazione da parte delle donne non occidentali alternative rispetto alla scelta religiosa.

Il fatto stesso che sia emerso nel panorama filosofico questo tentativo di convergenza, comunque, induce a riflettere sullo stato della riflessione filosofica nel femminismo. Forse sarebbe legittimo ritenere l’operazione di Zahra Ali come un (estremo?) tentativo di rilancio di una prospettiva teorica che negli ultimi tempi sembra segnare il passo, anche alla luce della “fuga in avanti” rappresentata dalla primavera araba. Forse, però, si dovrebbe riconoscere soprattutto che l’indebolimento teorico caratterizza in modo più evidente l’approccio laico-universalistico (repubblicano, si direbbe in Francia), sempre più esposto al rischio di strumentalizzazione da parte delle forze reazionarie, come è accaduto (almeno nel caso francese) nei maggiori appuntamenti politici degli ultimi tempi, dalla legge sul velo a quella del “matrimonio per tutti”.

È così che, infine, la lettura di Féminismes islamiques spinge in realtà a domandarsi dello stato di salute di quella concezione “critica” illuminista che pone la secolarizzazione come fondamento dell’emancipazione (non soltanto delle donne), tentando di individuare i possibili punti di resistenza contro la sua strumentalizzazione a fini razzisti o reazionari. Ma spinge anche a ritornare sul senso di quella critica all’etnocentrismo occidentale, fondamentale per lo sviluppo di molti fra i più recenti approcci di filosofia politica, a rivalutarne le condizioni di emergenza e il contesto di affermazione. Per evitare, anche in questo caso, il rischio di una seconda strumentalizzazione, speculare rispetto alla prima, dettata da un “essenzialismo di ritorno” non meno riduttivo dell’occidentalismo.

NOTE

(1) Ne sono una testimonianza il Congresso Internazionale del Femminismo Islamico, organizzato in Spagna nel 2005, 2006, 2008 e 2010, e il convegno “Feminism and Islamic Perspectives: new Horizon of Knowledge and Reform”, proposto dal Woman and Memory Forum e tenutosi al Cairo a marzo 2012. A parte una nutrita letteratura in inglese, è possibile consultare due importanti lavori di sintesi sul fenomeno del femminismo islamico in lingua italiana: Renata Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma 2010; e Anna Vanzan, Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, Bruno Mondadori, Milano 2010.

(2) Il Francia il tema era già stato posto da Existe-t-il un féminisme musulman?, Paris, L’Harmattan, 2007 (atti del convegno sul femminismo islamico organizzato dalla commissione “Islam e Laicità” dell’UNESCO nel 2006) e da due numeri monografici di rivista: « Féminismes islamiques », nella Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée n° 128, 2010, e «Le féminisme islamique aujourd’hui», in Critique internationale, n° 46, 2010.

(3) Lo dimostra la storia dei movimenti anticoloniali sorti nel mondo arabo lungo tutto il Novecento. Per rimanere nell’ambito delle rivendicazioni femministe, si può trovare un elenco di alcune attiviste e teoriche arabe “laiche” in Renata Pepicelli, Islam femminista e riletture del Corano in una galassia plurale, «Il manifesto», 09/01/2011, ripreso online in http://rete-eco.it/2011/fr/documenti/35-riflessioni/18512-islam-femminista.html.

(4) Gayatri Chakravorty Spivak, Three Women’s Texts and a Critique of Imperialism, in «Critical Inquiry», n° 12, 1985, pp. 235-61. Non occorre ricordare le opere della più nota pensatrice postcoloniale, la cui opera è tutta irrorata da una riflessione sul femminismo e sulla condizione della donna. Risale al 1985 anche il fondamentale Can the Subaltern Speak? Speculations on Widow-Sacrifice, «Wedge», 1985, pp. 120-130 (reperibile anche all’indirizzo http://www.mcgill.ca/files/crclaw-discourse/Can_the_subaltern_speak.pdf).

(5) Chandra Moanthy, «Under western eyes: feminist scholarship and colonial discourses», Feminist Review, n° 30, 1988, ora in Chandra Mohanty, Feminism Without Borders: Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, Duke University Press, 2003, pp. 17-42.

(6) Ivi, p. 22.

(7) Cfr. a questo proposito anche l’intervista http://www.contretemps.eu/interviews/«-femmes-musulmanes-sont-vraie-chance-féminisme-»-entretien-zahra-ali.

(8) Valérie Amos et Pratibha Parmar, Challenging imperial feminism, «Feminist Review», n°17, 1984, p. 4.

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