Da Abbatto i Muri:
Discutevamo qui con thehighpeak. Di paure, barricate, cani sciolti.
C’è che discutere tra persone che talvolta hanno idee differenti non è mai una cosa semplice. Io discuto con chiunque non voglia zittirmi/cambiarmi, in un modo o nell’altro, con violenza.
Non sono abituata a mettere lettere scarlatte sulle persone diverse da me. Mi piace che la comunicazione tra umani sia personal/politica. Ci si racconta, reciprocamente, in una affermazione positiva, senza che il racconto di un@ diventi di per se’ la negazione del racconto dell’altr@. E in tutto ciò non serve essere perfettamente affini. Non è così che funziona lo scambio dialettico dell’umanità.
In questo periodo, per esempio, c’è una cosa che mi turba un pochino ed è il fatto che si insiste in questo marchio di infamia per chi mette in discussione il termine “femminicidio” mentre si avvalorano e legittimano tutte le posizioni, incluse quelle pessime, di chi pronuncia la parola femminicidio senza saperne niente. Parlare acriticamente di femminicidio non regala santità così come parlarne criticamente non può regalare affinità con il demonio. Io mi rifiuto di credere che questo debba essere il percorso di inclusione ed esclusione nel discorso pubblico per chi vuole parlare di violenza sulle donne. Femminicidio non corrisponde ad un credo. Non può essere intesa in quanto ideologia rispetto la quale si trova un ulteriore modo di dividere gli umani in buoni e cattivi. Non è possibile che giusto noi che combattiamo contro le paure generate da secoli di formazione sessista riproduciamo schemi che generano altre paure e individuano mostri contro i quali scagliare i nostri poteri di scomunica. Davvero a me comincia a sembrare tutto ciò parecchio inquisitorio. Lo stigma negativo per eccellenza diventa “mette in discussione il femminicidio“, ove per femminicidio si intende il termine e non la violenza sulle donne in se’. Il termine con tutto il carico di emergenza che chi lo pronuncia ostenta. Il che obbliga tutti a essere inclini ad accettare norme autoritarie e repressive che non ci piacciono affatto. Se è questo lo scopo allora smetto di parlare di femminicidio anch’io. Mettetemi nel mucchio, tra i cattivi, e non potete dire che io neghi proprio nulla perché fare un ragionamento critico e laico sulla questione non è “negare“. E chi lo dice ha smesso l’abito civile e ha indossato quello talare, non c’è dubbio.
Dicevo, a me interessa confrontare il personal/politico ove venga svelato senza acrimonia. Senza puntelli di vittimizzazione. E di ogni racconto su esperienze che producono malessere, disagio, comunque lo si voglia chiamare, varia la percezione a seconda del sesso di chi lo scrive. Narrassi io una mia esperienza potrei perfino permettermi di inserire un insulto qui e là nei confronti di un mio eventuale ex. Un uomo non può farlo perché qualcun@ direbbe già che raccontare la sua vicenda diventa un pretesto per dare addosso alle “donne”, tutte. C’è sempre il rischio nelle narrazioni personali di ricorrere a stereotipizzazioni e linguaggi non politically correct, ma certe scivolate sono tollerate quando a scrivere è una donna e invece non lo sono se a scrivere è un uomo. Così stanno le cose.
L’ascolto reciproco è qualcosa che si affina con il tempo. Tentare di capirsi non è semplice. Superare diffidenze reciproche nemmeno. Ascoltarsi e riconoscersi reciprocamente può avvenire a partire dal racconto di esperienze che ciascuno di noi vive.
Il racconto personale in genere non scade nelle generalizzazioni. A quelle si ricorre nella comunicazione indiretta, quando non puoi dire che la tua ex moglie, e solo lei, è stronza o il tuo ex marito, e solo lui, è stronzo perché se lo dici con chiarezza ti becchi mille conseguenze. Il web è pieno di livore e toni viscerali che derivano dal fatto che si usa il mezzo di comunicazione per sfogarsi, senza serenità, perché qualcun@ si accorga di te e sappia che tu stai soffrendo. Quel genere di comunicazione non è osservazione sociologica dei contesti sociali, non svela alcuna scientificità. Realizza la tessitura di linguaggi e una intera ideologia che poi in realtà è basata su una specifica esperienza personale. Corretto esigere che si smetta di produrre stereotipi sessisti e normativi. Esattamente come sarebbe auspicabile che in tante smettessero di parlare a nome delle “donne” tutte identificandole con un unico sentire.
Ma se da una narrazione personale – in special modo se per voce di un uomo – c’è qualcuna che si sente privata di riconoscimento perché in qualche modo proietta sulla storia proprie questioni e vi legge generalizzazioni, chiediamoci perché questo meccanismo quando avviene a uomini che leggono di una donna che racconta di violenza e parrebbe generalizzare li disturba. Sono reazioni in entrambi i casi molto di pancia, perché ciascun@ rimanda ad una lettura proiettiva delle cose e non si lascia mai spazio, o raramente, all’ascolto senza inserire elementi altri ed oltre quel che leggi.
C’è poi un problema di linguaggio. Dipende sempre come tu dici le cose. Se parli investendo di acrimonia e livore tutte le femministe, le donne, (o gli uomini) quello che dici diventa inaccettabile. Una narrazione realizzata con un linguaggio che produce resistenze, ovvie e legittime, lascia passare una radice discriminante che non invita affatto ad un riconoscimento reciproco quanto piuttosto ad un disconoscimento dell’altrui sofferenza e dell’altrui autodeterminazione per fare emergere la propria.
A quel livello di discussione, per esempio, io non sono minimamente disponibile. Dall’altro lato, da parte di uomini, antifemministi, padri separati, c’è un pregiudizio che io interpreto, talvolta, come una reazione quasi automatica a quel che ti dice una femminista, per cui tu poni il problema del linguaggio e c’è chi pensa che tu non abbia neppure voglia di ascoltare. Ma il problema del linguaggio non è secondario. E’ sostanziale. E chiunque adoperi linguaggi nuovi e differenti diventa mio interlocutore. Questa è sempre stata una premessa per ogni mia interlocuzione.
In questo sforzo di comunicazione complessa che prevede l’elaborazione di un nuovo linguaggio o che semplicemente vuole fare emergere un linguaggio che c’è sempre stato e che restava occultato da rumori un po’ più arrabbiati, scomposti, inaccettabili, forti, c’è chi insiste nel darmi addosso mettendo in circolo i linguaggi che furono, e che in rete leggi sempre meno spesso. Come se il solo fatto di parlare di padri separati, finalmente, con linguaggi che non generalizzano a proposito di donne, che non dimostrano sessismo di alcun genere, fosse di per se’ una maniera per far passare in gran carriera piani oscuri di devastazione dell’umanità femminile. Chi pensa o intende questo non ha capito niente. Superare barriere linguistiche e comunicative aiuta a riconoscersi reciprocamente e – finalmente – a raccontare le questioni in modo sereno. Se questa cosa è giudicata da certuni da criminalizzare dunque a chi criminalizza piaceva esattamente il pessimo linguaggio che alcuni usavano prima perché si potesse dire che il nemico è cattivo. Il punto invece è che il nemico non solo non è cattivo ma più spesso non è neppure un nemico. Si tratta di persone che hanno dei problemi e questi problemi vanno raccontati. Ed è veramente tutto qui.
Perché si tratta di politiche, dinamiche sociali e persone che non puoi mettere in un tritacarne e fare finta che non esistano esattamente come io pretendo che ci si renda conto che esisto anch’io.
Sono questioni che in rete, ad esempio, vengono vissute proprio come scontri emotivi, moti viscerali, una infinita esposizione di rancori attraverso i quali bisogna intercettare qualcosa di comprensibile e inclusivo.
Il mio Al di là del buco è perciò “rischioso” perché chi tiene in vita solo barricate e ne ha bisogno per sentirsi legittimamente protagonista di lotte di frontiera sente delegittimata la propria postazione. Dunque bisogna che delegittimi la mia.
Le barricate spesso sono dovute a resistenze attive contro chi ti vuole mettere a tacere, una sorta di legittima difesa, ma certe volte, ed è questo il caso, diventano solo un pretesto che abbisogna di tenere in vita mostri, evocarli ove non sono presenti, perché se non ci sono mostri, se non si mette in circolo la paura dell’altro (e l’altro, per intenderci, al momento sono anch’io), bisognerebbe fare uno sforzo, mettere giù le armi e capire.
Manca la volontà di capire perché la barricata è tanto più semplice da gestire. Tutti uniti in nome della paura del mostro. Un po’ come fa chi ti dice che lo straniero va braccato e buttato via al confine. Certezze. Sicurezze. Che diventano prigioni. Senza ossigeno. Senza complessità.
A chi vi dice di aver paura di loro o di me ricordate che un ministro della paura lo abbiamo avuto già. Perfettamente parodiato da Antonio Albanese. Istigare fobie sociali nei confronti di un intero gruppo di persone o di una sola produce unità tra i fobici ed esprime volontà di controllo in senso autoritario.
Non abbiate paura di me. Non abbiate paura di chi è divers@ da voi. Parlateci senza pretendere di cambiarli. Ascoltate e fatevi ascoltare. L’umanità chiusa in mille trincee fatte di paure e mostri inventati è medioevale, ed è questo quel che vedo oggi: il medioevo. In nome della difesa delle donne.