Femminismi
#FabriFibra: ma io non sono una bambina. Non ho bisogno di tutela né di sorveglianza!
Categories: Femminismo a Sud

Da Abbatto i Muri:

Insistere nel paragonare le donne ai bambini, stabilirne l’innocenza, metterle su un piano che auspica tutele dalle quali conseguono normatività e controllo (perché un bambino é innocente di per se’, va tutelato ma è anche ritenuto irresponsabile e dunque è da controllare, sorvegliare e correggere), è la cosa secondo me più sbagliata che ci possa essere.

Sbagliato fu porre la questione in questi termini in occasione della approvazione della legge sulla violenza sulle donne nel 1996 e sbagliato lo è anche adesso in cui questo discorso diventa limitante per l’autodeterminazione di ogni donna.

Quando si capirà che offrire in un discorso pubblico l’immagine di una donna, persona, che altro non sarebbe che una indifesa creatura che non saprebbe o potrebbe difendersi dalle brutture cui il mondo la sottopone, significa piegarla alla logica e conseguente sottomissione a tutori che si sentiranno in diritto di normare la sua esistenza, sarà sempre molto tardi.

Io non sono una bambina, non sono irresponsabile, non sono indifesa. Io sono adulta, responsabile e so difendermi.

Non voglio essere difesa dalle parole.

Non voglio essere difesa da una immagine.

I miei occhi possono sopravvivere alla merda proposta su una rivista oscena.

Le mie orecchie potranno sopravvivere all’ennesima canzone machista.

Fare controcultura non può voler dire chiedere la rimozione di quel che non mi piace. Piuttosto lo sovverto, e della sovversione faccio un’arte.

Autorganizzo le mie lotte. Decido io come difendermi e mi difendo anche dai miei salvatori che sono quasi assai più insidiosi, spesso, perché legittimati, di chi mi vuole male.

Se non mi riconosci la capacità di difendermi, se mi esponi al pubblico come fossi una infante, poi non puoi lamentarti se non mi assegnano la responsabilità di governare il mio corpo, la mia vita e il mio pezzo di mondo.

Perché una bambina non governa ma è perennemente governata.

Perché una bambina non può difendersi e reagire autonomamente perché subirà la repressione dagli stessi suoi tutori ogni volta che proverà a farlo.

Perciò, pur comprendendone la sostanza, le intenzioni, stimando le sue motivazioni, non condivido quanto scritto sul concerto del Primo Maggio da Michela Murgia.

Ci sono modi e modi per porre la questione e il modo scelto dal Coordinamento Di.re offende me innanzitutto, obbligandomi a restare costretta, in ogni caso, entro i confini della cultura patriarcale.

Io avrei fatto completamente altro.

Cosa e come e perché l’ho raccontato QUI.

Con immutata stima.

—>>>Copio qui il dialogo tra me e Michela a proposito di questo post.

Le ho presentato il mio come un punto di vista differente. Lei così risponde:

“Cara, non è un punto di vista differente, o almeno non mi pare così diverso, perchè non ho letto come un’azione di tutela quella che hanno compiuto le donne di Di.Re. Mi è parsa invece l’occasione per accendere un riflettore sulla leggerezza con cui la violenza sulle donne viene considerata “narrabile” all’interno dei confini stessi della sua legittimazione. In un’occasione che aspira a essere una festa di popolo e dei diritti è importante far rilevare che la violenza sulle donne può essere cantata così come avviene, dalla prospettiva del maschio, senza filtro nè critica e con l’alzata di scudi del “Nessuno tocchi l’artista”. Ma chi riterrebbe “cantabile” su quel palco l’antisemitismo o il neofascismo? Eppure – per stare dentro alla difesa un po’ paracula dello stesso Fibra – esistono e prolificano fecondi nel pensiero comune: hanno quindi diritto di essere cantati così come si manifestano nella testa di chi li vive. Eppure è esatto ipotizzare che in casi di testi artistici quel tipo non ci sarebbe stato neanche bisogno di chiedere di ritirare l’invito, perchè l’invito non sarebbe mai partito. Il motivo è che l’antifascismo è un “valore” consolidato della sinistra, mentre l’antimachismo non è un valore di nessuno. A meno che qualcuna non si alzi a dire che dovrebbe diventarlo, e credo che sia questo che hanno fatto le donne di Di.re. Non c’è alcuna intenzione di mettere le donne o i giovani di quella piazza sotto tutela; casomai c’è il desiderio di cominciare a far rilevare l’assurda leggerezza con cui fino a ora è stata pubblicamente tollerata la narrazione acritica della violenza di genere.”

A questo io replico:

“E’ che io valuto la ricaduta mediatica di questa azione che se svolta in altro modo poteva assumere un valore simbolico importante, invece quel che accade, come tu stessa dici, è la divisione in tifoserie acritiche, dogmatiche, che non reputo comunque meno sessiste o più consapevoli di quanto non siano stati coloro i quali hanno invitato Fabri Fibra su quel palco senza sapere di cosa fossero fatti i suoi testi.
“Nessuno tocchi l’artista” non è un argomento. Lo è secondo me fare attenzione ai segnali che si danno perché dire al mondo che la tua dignità è protetta grazie ad una esclusione, che piaccia o meno, viene percepito come una forma di autoritarismo.
Fare attenzione alle forme di comunicazione che noi stesse mettiamo in campo quando attiviamo una difesa delle nostre ragioni è una cosa fondamentale. Questo mi aspetto da chi fa lotta contro la violenza sulle donne, inclusa quella simbolica, che ci relega sempre in una posizione subordinata.
Non devi proprio spiegarmi il perché certi “compagni” non abbiano chiaro che la lotta antisessista non si esaurisce alle barricate che fai quando il sessismo è fuori da te. Ne sono più che consapevole. Ma davvero non siamo in grado di attivare altre forme di autodifesa differenti? Davvero non c’era nessuna brava Rapper o un gruppo di donne che potessero salire su quel palco e misurarsi con quell’artista in un modo che ci restituisse la dignità e l’orgoglio di aver risolto da sole, noi, e in altro modo questa cosa?”

Lei:

“Sull’effetto mediatico hai perfettamente ragione. Anche io avrei usato altri metodi, ma capisco anche l’emergenza di dover agire davanti al fatto già compiuto. Se non hai il tempo e il modo per organizzare un dissenso creativo, anche dire semplicemente NO è legittimo.”

Ancora Lei:

“Peraltro, non sono convinta dell’idea che narrazione violenta e contro-narrazione non violenta possano stare sullo stesso palco senza creare un cortocircuito di senso dove l’uno finisce per legittimare l’altro. E’ un po’ l’operazione che fa il blog della 27esima quando fa l’inchiesta sulla violenza alle donne e poi a un certo punto ti piazza lo spruzzo di pluralismo tipo “e ora la parola agli uomini”, dove gli abusanti raccontano il loro punto di vista. Quello tra un abusatore e un’abusata non può essere proposto come dialogo tra posizioni paritarie, altrimenti quello che è un reato rischia di essere percepito come un’opinione tra le molte possibili, per quanto conflittuale.”

Rispondo io:

“Io trovo che ascoltare il maltrattante sia importante. Diversamente non sapremmo quante distorsioni esistono e sono culturalmente diffuse e veicolate, più o meno consapevolmente, nella nostra cultura. Diversamente non sapremmo che il maltrattante non è un mostro, non è lo “straniero”, ma è un umano e vive vicino a noi. Il punto è, secondo me, che si tratta di culture dominanti che trovano spazio anche quando mi si propone di mostrarmi in quanto vittima salvata dall’intervento di un qualunque tutore. Ti muovi sempre e solo nello stesso schema dicotomico in cui tu puoi essere vittima o colpevole (o complice) e lui può essere solo carnefice (mostro) o tutore, dove l’uno legittima l’esistenza dell’altro. Sono convinta che se non si mette in discussione questo schema perfino noi involontariamente legittimiamo machismi di ogni tipo, inclusi quelli istituzionali. Quel che proponevo comunque era una presa più o meno autorizzata del palco. Andavi lì a cantargliela. A dirgli quali sono state le sue parole, lo facevi autonomamente e senza attendere l’esclusione legittimando sindacati/istituzioni che oltre a dichiarare l’antisessismo in forma occasionale dovrebbero poi smettere di usare le donne a convenienza e non battere ciglio su concertazioni, furto di diritti, riforme del lavoro e affini che pure ci riguardano. Non sono forse violenza sulle donne lo smantellamento dello stato sociale e le riforme sul lavoro fatte senza che i sindacati abbiano battuto ciglio (a volte anzi hanno espresso parere favorevole)? Non è violenza sulle donne puntare sempre e solo su politiche di conciliazione lavoro/famiglia che rispettano l’antica formula per cui per le donne che lavorano comunque sia quel che conta è e sarà sempre e solo il lavoro di cura?

Dopodiché mi chiedo: perché io che lotto contro la violenza sulle donne non so prendermi uno spazio politico di azione senza dover passare da un “padre” all’altro? Come si fa a mettere in campo una rivendicazione senza apparire deboli, mostrando forza, potenza, quella che noi abbiamo e ci portiamo dietro? L’immagine che mi viene in mente, rispetto all’azione di Di.re, al di là delle loro stesse intenzioni, è quella solita, terribile, del manifesto antiviolenza in cui vedi una donna con gli occhi pesti e lo sguardo inespressivo. A quell’immagine preferisco mille volte di più quella di una donna forte, fiera, che realizza da sola la propria lotta.”

Lei:

“Nessuna delle questioni mi sembra declinabile nella contingenza del concerto del 1° maggio. Parto dalla necessità di affermare l’evidenza che l’abusante è un uomo comune. Non sono convinta per nulla che l’equiparazione in dignità degli spazi di parola sia utile a raggiungere questo obiettivo, perchè le volte in cui mi è capitato di assistere a questo benintenzionato teatrino è sempre accaduto che gli uomini, almeno quei pochi che non negano, finissero per giustificarsi dipingendosi fisicamente e psicologicamente fragili (perché infragiliti dalle donne), vessati (dalle donne), stressati (dalle donne) e bisognosi di comprensione e aiuto (dalle donne). Che la violenza abbia una faccia comune lo sappiamo perché quella faccia ce l’hanno rivelata le donne sopravvissute; gli uomini violenti al massimo ci hanno detto che hanno sbagliato perchè quella stronza li esasperava. Perchè credi che un’ipotetica crew femminile sul palco di piazza San Giovanni avrebbe contribuito al nostro empowerment? A me pare piuttosto che avrebbe consolidato la messa in scena della “guerra tra sessi” con una gangsta sit-com alla Sandra e Vianello, yo brother / yo sister. Per me discutere fino a negare il diritto di parola all’abusante e ai suoi complici narrativi è un gesto necessario e urgente che rientra perfettamente nella mia idea di empowerment. Alla narrazione violenta va staccata la spina, a maggior ragione se quella spina è attaccata a un microfono. Quel che è scandaloso è che la richiesta della rete Di.Re sia stata scaricata su di loro, offrendo armi a chi ha interesse a trasformare una lotta sacrosanta per il rispetto in una pretesa censoria capricciosa e isterica.”

Io:

“Chi ha scaricato la richiesta se non gli stessi sindacati? Quella è la ricaduta mediatica di cui parlavo. Della quale in ogni azione simbolica o di recupero di spazio e di parola si deve tenere conto. Non condivido la tua opinione sulla messa in scena tra rapper. Dipende da come la rappresenti. Quando Nanni Moretti in un suo film va dal critico d’arte a leggergli pari pari le sciocchezze scritte sui film splatter opera un subvertising che ha effetto di scardinamento, molto più di quanto non sarebbe riuscito a fare se avesse, che so, immaginato una scena in cui svolgeva una petizione per non farlo scrivere più su L’Unità. Invece l’azione di Di.re, adesso, sui media, è quella che resta impressa molto più che le parole cantate da Fabri Fibra. Le puoi ripetere all’infinito per fare comprendere il perché della tua indignazione ma non interessa a nessuno.
Dopodiché quando dici che ritieni necessario staccare la spina alla narrazione violenta, trovo sia inefficace. Non l’intento, né l’obiettivo. Lo è perché nei fatti, quello di cui tu parli, io lo leggo ogni giorno in azioni da inquisizione laica di persone che in nome della difesa della dignità delle donne strapperebbero pagine di libri o mutilerebbero scene di film dove insiste una narrazione che non ci corrisponde. La cultura, e sono certa che su questo siamo d’accordo, non la cambi cancellando pagine ma scrivendone altre. Io non chiedo che certi siti o blog chiudano se mi offendono. Apro il mio blog e racconto il mio punto di vista. Restare tutti quanti sul web, in una piazza virtuale, così come in una piazza reale, significa equiparare gli spazi di parola? Direi di no. Direi che la cultura non la cambi staccando la spina ma accendendo altre voci. Perché ogni volta che tu stacchi una spina in realtà nulla hai modificato nella mentalità comune, tra la gente di cui non leggi o ascolti nulla, e che ripete come un mantra gli stessi concetti tra le mura delle proprie case, dentro le scuole, i luoghi di lavoro. L’azione di Di.re non ha ottenuto alcuna responsabilizzazione collettiva. Appare come una richiesta di censura e quell’esclusione ha segnato un punto non per noi, non per l’empowerment delle donne, ma per quanti ritengono, ancora oggi, che le donne, le femministe, in fondo altro non sono che delle gran rompiscatole.
In quanto alla narrazione dei maltrattanti io invece continuo a trovarla assolutamente fondamentale. Se quegli argomenti di cui parli, in cui le “colpe” delle violenze vengono scaricate sempre sulle donne, possono ottenere credito a mio avviso è anche perché si insiste in una contronarrazione che non rivela alcuna complessità, in cui tutto è bianco o nero, rispondendo a quella ingiusta colpevolizzazione delle vittime di violenza con l’indicazione di una netta mostruosità dei carnefici. Una contronarrazione che non mette in luce le complessità non consente alle donne di imparare a percepire la manipolazione quand’essa viene realizzata sulla loro pelle. Perché è su quella che tante restano impigliate giacché non sanno riconoscere la violenza. Non lo sanno fare perché c’è chi gliela racconta in un modo che non ha nulla di credibile. Ti aspetti di poter individuare il mostro e invece il mostro, semplicemente, non c’è.

In ogni caso mi rendo conto che il nostro confronto sereno in questo momento viene letto come fossimo in un ring e vedo muoversi tifoserie pro/contro che nulla hanno a che fare con la dialettica tra femminismi. Una dialettica sulle pratiche, che arricchisce e che va intesa sempre nel rispetto delle persone e delle differenti opinioni che manifestano.
Farò tesoro delle cose che hai scritto e di questa discussione. Ancora un abbraccio.”

E la ringrazio di questo bel confronto.

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