La violenza intraspecifica, per esempio.
Gli animali generalmente non la praticano. Non esiste nell’animale l’omicidio intraspecifico, probabilmente perchè non parla.
Quando definiamo la nostra più brutale violenza come un “agire disumano, animale“, compiamo un errore epistemologico reso possibile dal linguaggio che ci permette di creare comparazioni di valore atte ad allontanare dalla nostra specie ciò che non ci piace, attribuendo all’altro ciò che è invece intrinsecamente nostro.
Prendete questa notizia di qualche giorno fa: la testimonianza di un guerrigliero indipendentista dell’Uck (esercito di liberazione del Kosovo) che ha raccontato di come prese il cuore dal petto di un prigioniero, presumibilmente serbo, vivo e cosciente al proprio sventramento.
Il cuore sarebbe stato poi venduto al mercato nero per prolungare la vita di qualcun’altro in grado di pagare per averlo.
L’animale agisce l’aggressività predatoria per calmare l’impulso della fame, per mantenere la sua struttura termodinamica; l’aggressività competitiva per mantenersi in un territorio che garantisca la soddisfazione dei suoi bisogni: bere, mangiare, riprodursi; singolo od in gruppo la sua è una comunicazione di necessità… solo quella umana, mediata dal linguaggio diventa una comunicazione di legittimità, di affettività, di autolegittimazione.
Le motivazioni alla predazione del cuore serbo da parte dei guerrieri albanesi dell’Uck in lotta contro la dominazione serba, -in lotta, potremmo dire, per la propria libertà-, sarà stata sostanziata dai migliori discorsi sulla terra, il sangue, il popolo, la patria, …il nemico… (così come l’idea della Grande Serbia motivava lo stupro etnico di migliaia di donne dalla Bosnia al Kosovo) e poi, in modo meno declamato, dall’introito economico del cuore venduto al mercato.
Altre iperboli linguistiche e retoriche poi provvedono a legittimare il nostro uso dei cuori altrui in modo legale, a condannare quello illegale ed ogni altra azione cattiva che ci fa essere bruti …come animali.
Ma noi parliamo e questa è la cosa migliore (o peggiore) che l’evoluzione, agli animali che eravamo, ci avesse potuto lasciare.