In Francia, prossima alle presidenziali, dove il voto delle donne sembra determinante, si è aperta la caccia a chi espone l’esca migliore.
Nell’Italia prossima alle amministrative, ed in vista delle politiche, si espone il tema “femminicidio”, così come certificato dalla repentina e generalizzata presa di coscienza del fenomeno.
Senonchè appena da sinistra a destra imparano a sillabare la famosa parola, c’è chi propone di non pronunciarla affatto perché non ontologicamente corretta.
E’ Isabella Bossi Fedrigotti che dice: “Ci piace essere chiamate femmine? Non tanto. Probabilmente, perché, magari erroneamente, abbiamo l’impressione di sentire in quel termine una vaga intenzione di svilimento, se non di disprezzo…”, “… di conseguenza piace poco il termine femminicidio che si sta diffondendo…”; termine che viene usato, a suo avviso, per una certa “ansia di precisione“.
Femminicidio è un termine che abbiamo imparato ad usare anche noi, perché ci sembrava condivisibile così come rilanciato da Barbara Spinelli nel cui libro “Femminicidio: dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico” lo si descrive in sintesi come termine “nato in occasione della strage delle donne di Ciudad Juarez, che indica la violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale, rivolta contro la donna «in quanto donna».
E poi sì, l’ansia di precisione c’è, e non è una cattiva cosa, non solo per emergere dalla mistificazione sulle motivazioni passionali che si crea attorno a questi delitti, ma soprattutto perché questi delitti di donne non hanno nemmeno la parola per essere detti. C’è l’uxoricidio, come ricorda lei stessa, dove la donna viene riconosciuta perché nel ruolo sociale di moglie, e poi c’è l’omicidio. La donna non c’è. Ma viene uccisa; indipendentemente dal ruolo sociale, riconosciuto o meno, e nella maggior parte dei casi quando esprime una libera volontà di giudizio e di scelta cioè quando si pone come soggetto -di genere femminile-. Perciò “femmincidio” anche se non ci piace essere chiamate ‘femmine‘, ma qui si apre l’appassionante capitolo sulla lingua e su quello che le parole si portano appresso.
Per esempio, se cerchiamo la “donna” in lingua friulana, non la troviamo, né troviamo la “moglie”, troviamo solo la femmina: le fèmine. Ferme, inchiodate al puro dato biologico. E’ un esempio, ma se pensiamo al “femminicidio” come alla brutale cancellazione di un soggetto che in qualche modo esprime la sua autonomia personale (p.es tutte le donne uccise perché hanno deciso di lasciare il partner… ), capiamo anche che il femminicidio ha radici in un substrato di pesanti stereotipi, input sociali, norme antropologiche, atavismi sessisti di cui la lingua è espressione.
Ha ragione Fedrigotti a sollevare il problema linguistico, forse “femminicidio” non è il miglior neologismo possibile; forse, in vista del voto è la migliore esca politica per donne, la parola magica che in bocca a politici/politiche in debacle, profuma l’alito della loro demagogia… ma pronunciato e dettagliato dalle donne che hanno a cuore le donne e non la carriera politica o la propria visibilità personale, nomina ciò che era innominato e nascosto dalla lingua autoassolutoria degli esecutori, uomini o maschi, che dir si voglia.